La vita è grande, buona, attraente ed eterna. Lo scrive nel suo Diario una ragazza ebrea morta ad Auschwitz a 29 anni: Esther (Etty) Hillesum, che voglio ricordare in vista della prossima giornata della Memoria. La scrittrice Elisabetta Rasy le ha dedicato un’intensa biografia (Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza) come gesto di gratitudine per averle fatto scoprire, in momenti oscuri, che vivere è trovare la propria forma, in qualsiasi circostanza. Lo stesso accadde sette anni fa a una mia alunna, sedicenne in crisi, alla quale prestai il Diario di Etty che mi restituì con una lettera: «Se prima mi limitavo a vedere il bianco e il nero, ora le sfumature fanno parte di me. Mi è impossibile non vedere cose che mi rattristano, ma non oso più incolpare la vita. Etty è così simile a me che leggendo mi sono sentita finalmente Bene (con la maiuscola), le sue parole sono uno specchio: è stato liberatorio ammettere che il dolore c’è e che anche qualcun altro lo ha vissuto. Etty mi ha insegnato molto con la sua giovane irrequietezza, forza, fede, ma soprattutto con il suo amore inarrestabile per la vita. Questo è ciò che il libro mi ha trasmesso: la forza la possiedo anch’io, devo tirarla fuori; i tesori li ho nell’anima. La vita non è mai sbagliata, bisogna ascoltarsi, ascoltarla. Ti lancia una sfida e le devi tener testa. Ne avevo davvero bisogno».
Una scrittrice nota e con tanti libri alle spalle e un’adolescente alle prime armi con la vita trovano in Etty la loro «memoria». Perché? La mia alunna aveva ricopiato dei passi e li commentava (parola che significa raccogliere nella mente: ricordare). Dopo queste parole di Etty: «Stai cercando di rinchiudere la vita in poche formule ma non è possibile, la vita è infinitamente ricca di sfumature, non può essere imprigionata né semplificata. Ma semplice potresti essere tu», annotava: «Questa frase ha dato il via alla svolta. Mi ricorderà ciò che è bene non dimenticare mai». La memoria non è una soffitta di cose in disuso, ma la facoltà di ridare forma alla vita (la giovinezza di cui parla Rasy nel suo libro) quando ci sembra sia diventata in-forme se non de-forme. Etty amava leggere il Vangelo e fece sua una frase di Cristo: «Non siate in ansia per il domani, basta a ogni giorno la sua pena». Non è un invito alla rassegnazione ma alla lotta, infatti «pena» in questo passo significa letteralmente «ferita», qualcosa che brucia e manca, che non si può ignorare e richiede cura. Etty ne traeva alcune conseguenze in un’altra pagina scelta dalla mia alunna: «Mi sento come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi. Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, dobbiamo offrire loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire».
Per Etty il male può esser superato solo curando, dentro di noi, la ferita che ci ha inferto: «Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi e non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi». La «metamorfosi» (tras-formazione, trovare forma, essere in forma) che la mia alunna cercava era descritta in un altro passo ricopiato dal Diario: «Vivevo sempre come in una fase preparatoria, come se ogni cosa che facevo non fosse ancora quella “vera”, ma una preparazione a qualcosa di diverso, di grande, di vero, appunto. Ora questo sentimento è cessato. Io vivo, vivo pienamente e la vita vale la pena viverla ora, oggi, in questo momento». Etty consegnava a un’adolescente paralizzata il segreto della vita buona, grande, attraente ed eterna (che vuol dire sempre giovane), non sposando la retorica di un ottimismo senza fondamento, ma affrontando e superando il male. Come? Invece di tentare di fuggire decide di rimanere a fare l’assistente nel campo per rifugiati della cittadina olandese di Westerbrok, dove scrive una frase che ho fatto mia e cito a chi mi dice che non si può più credere in Dio dopo i campi di concentramento: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio».
Anche io vivo momenti di buio in cui la vita mi pare senza senso, ma con Etty ho capito che sono proprio i momenti in cui Dio si manifesta come non me lo aspetto: un Dio che ha bisogno dell’uomo, di me, per continuare a ri-creare il mondo in quella situazione specifica. Etty lo dice così: «Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di Te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini e spesso trovo in loro qualcosa di te». Etty decide di difendere e curare il divino che c’è in ogni persona: «Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». Cercava in sé le risorse per riuscirci: «Dio mio, ti ringrazio perché mi hai creata così come sono. Ti ringrazio perché talvolta posso essere così colma di vastità, che non è poi nient’altro che il mio esser ricolma di te». Etty «concepisce» (fa nascere) la propria e altrui divinità come compimento della propria e altrui umanità, come riconosceva anche la mia alunna: «Sono ricca di qualcosa che per me è grande e appagante: aver Dio con me». Etty scopre così che si può: «fiorire e dar frutti in qualunque terreno si è piantati” e infatti, come racconta Rasy: «al campo, va di baracca in baracca, porta ai più sofferenti il cibo e l’acqua calda che può trovare, qualche indumento per chi ne ha più bisogno… poi cerca un cantuccio per leggere e scrivere». Etty non rinuncia a essere e fare ciò che solo lei può essere e fare in quel «campo» così arido, fosse anche solo apparecchiare la tavola. Tutto era cominciato tenendo un diario con lo scopo di: «Trovare una forma, la mia forma», lavorare dentro tanto quanto fuori. Come sarebbe utile, in tempi di diffusa incoscienza di sé, coltivare a scuola questa pratica di scrittura e non limitarsi ai temi, per scoprire che la memoria è cosa viva: com-mentare salva la memoria, ram-mentare salva l’anima, ri-membrare addirittura salva il corpo. Etty tenne il Diario fino al giorno prima di esser deportata ad Auschwitz: partendo lo affidò a un’infermiera, era il frutto che lei, aspirante scrittrice, aveva maturato nel «campo» in cui era stata «piantata» e che nutre molti in cerca «di forma». La forma della memoria: ciò che non possiamo dimenticare per avere, in qualsiasi situazione ed età, una vita grande, buona, attraente ed eterna.
PS. Del Diario di Etty esistono due versioni (da Adelphi), una ridotta che consiglio per iniziare, per poi aprirsi a quella integrale, come è accaduto a me.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it