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Parole e scelte di guerra, vie di pace. L’Europa torni al «mai più»

Nelle scorse settimane, al Parlamento Europeo, un emendamento a una proposta di risoluzione sulla politica estera dell’Unione che invitava a mettere in campo urgentemente «sforzi diplomatici per mettere fine alla guerra in Ucraina e alle sofferenze del popolo ucraino», è stato rigettato con più di 470 voti su circa 630. Qual è il senso del rifiuto di uno «sforzo diplomatico»? Sembrerebbe che gli eurodeputati abbiano scelto di respingere l’idea stessa di negoziato, via maestra per la pace. È questa l’Europa che abbiamo sognato, quella che nel 2012 ha vinto il premio Nobel per la pace e che fu fondata sul «never again», mai più ricorso all’opzione militare dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale? In “Guerra e pace” Tolstoj scriveva che «la guerra è la cosa più abominevole della vita», ma pare che ciò sia dimenticato. Parole e iniziative di pace scarseggiano. È diventato arduo trovare un leader politico che inviti alla mediazione o alla moderazione. Uno Stato europeo dopo l’altro conferma la decisione di armarsi di più e di inviare armi sempre più pesanti sul fronte di guerra aperto in Europa, sia pure dalla parte degli aggrediti. E anche l’Unione Europea è contagiata da un atteggiamento bellicista.

Le parole e gli slogan unitivi che malgrado la guerra fredda hanno nutrito – certo talvolta con qualche ipocrisia o strumentalizzazione – ed educato intere generazioni, preservandoci dall’olocausto nucleare tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento, sono svaniti come non fossero mai esistiti. Un lessico di pace si registra ancora in alcuni ambiti particolari come nelle chiese, per esempio, oppure nelle scuole. Ma il mondo della politica e dei media va in un’altra direzione e giudica la parola “pace” un imbroglio o, nel migliore dei casi, alla stregua di un sogno ingenuo, da bambini o da religiosi.

I decisori e i padroni dell’informazione non parlano di pace ma sono divenuti esperti di armi e strategie militari. Questo è il tempo in cui un premier europeo intende abolire il “Giorno della preghiera” in modo da poter aumentare i fondi di spesa per la “difesa” in armi, e in cui ci spiegano come l’unica opzione possibile per il futuro sia la vittoria militare dell’Ucraina sulla Russia, a qualunque costo. Non si considerano i morti, i feriti e i mutilati, le sofferenze indicibili, le distruzioni, le conseguenze già in atto e quelle possibili a livello mondiale. Ci sono leader che minacciano e non escludono la possibilità di spingere il bottone dell’arma atomica, se del caso. Dichiarazioni che non ascoltammo nemmeno durante la crisi di Cuba.

La situazione in cui ci troviamo non è colpa nostra, delle democrazie e tanto meno dell’Ucraina. È la Russia che ha dato inizio a questa nuova e terribile fase del tragico conflitto d’Ucraina. Lo ripetiamo alla noia: c’è un aggredito e un aggressore. Ma dopo undici mesi durante i quali la parola è stata data esclusivamente alle armi, mentre la diplomazia è stata imbavagliata, occorre porsi domande stringenti. Pare che la guerra sia riabilitata come unico strumento ed orizzonte praticabile.

Eppure, il conflitto non sta avvicinando nessuna soluzione della crisi, che anzi appare lontanissima. Come in molti altri casi recenti, anche in Ucraina la guerra senza limiti complica il quadro e non risolve. Ci domandiamo: sentiamo ancora lo scandalo della guerra o ci siamo assuefatti alla sua inevitabilità? Il bellicismo generale della classe dirigente europea, a est come a ovest, tenta di comunicarsi alla pubblica opinione attraverso il sistema dei media vecchi e nuovi, creando un ingranaggio preoccupante. È inquietante l’attuale mancanza d’iniziativa nel proporre una qualsiasi formula negoziale: si parla solo di armi.

La politica, come la diplomazia, dovrebbe lavorare per la pace. Sotto traccia, magari, ma incessantemente. Dovrebbe esprimere il primato delle idee e delle parole rispetto alla forza bruta e alla mancanza di immaginazione. Dovrebbe avere il coraggio di « pensare l’impensabile come ha detto monsignor Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, alla conferenza “Le armi della diplomazia”.

«Pensare l’impensabile »: è già accaduto ad esempio quando Meuccio Ruini, nel dicembre 1947, spiegava all’Assemblea Costituente il perché della nuova formulazione del nostro articolo 11 della Costituzione, quello che esprime a chiare lettere il “ripudio” della guerra: «Risuonava come un grido di rivolta e di condanna del modo in cui si era intesa la guerra nel fosco periodo dal quale siamo usciti. Ecco il sentimento che ci ha animati. Si tratta[va] anzitutto di scegliere fra alcuni verbi: rinunzia, ripudia, condanna, che si affacciano nei vari emendamenti. La Commissione ha ritenuto che, mentre “rinunzia” presuppone, in certo modo, la rinunzia a un diritto, il diritto della guerra (che vogliamo appunto contestare), la parola “ripudia” ha un accento energico e implica così la condanna come la rinuncia alla guerra ». In parole di questa forza si è formata la coscienza democratica italiana ed europea. Dobbiamo tornare a crederlo di nuovo.

Fonte: Marco IMPAGLIAZZO | Avvenire.it

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