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Mosca Mondadori: «Mio padre dirigeva Playboy, per me conta solo l’Eucaristia»

Il pronipote di Arnoldo, figlio di Paolo Mosca: «Mi sarebbe piaciuto fare il prete di strada». «Le ostie? Fatte da assassini reclusi». «Il nonno Giovanni mandava baci alla Madonna». «Svenni alla prima confessione. E con Alda Merini…»

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È venuto al mondo nello stesso anno, il 1971, in cui il suo celebre bisnonno se ne andò, nove giorni a separare nascita e morte. Si chiama Arnoldo Mondadori, come l’editore scomparso mezzo secolo fa, solo che fra nome e cognome reca scritto anche Mosca. Perché lui, a differenza dell’Incantabiss di Poggio Rusco figlio di un calzolaio analfabeta, ha avuto per padre un noto giornalista, Paolo Mosca, che diresse un’infinità di riviste, da Playboy alla Domenica del Corriere, da Novella 2000 a Eva Express, condusse programmi tv, pubblicò libri, scrisse commedie, portò in teatro da regista Il petto e la coscia di Indro Montanelli e Hai mai provato nell’acqua calda? con Walter Chiari. Arnoldo Mosca Mondadori, filosofo, scrittore e poeta, aveva la strada spalancata nell’editoria, magari con Il Saggiatore, la casa fondata dal nonno materno Alberto Mondadori, o nel giornalismo, sotto l’ala del nonno paterno Giovanni Mosca, la firma del Corriere della Sera che aveva diretto il Bertoldo e fondato il Candido con Giovannino Guareschi. Invece ha rinunciato a tutto per dedicarsi alla Casa dello spirito e delle arti. E a un progetto sbalorditivo, «Il senso del Pane»: dal 2016 produce ostie per la messa e le regala a 500 fra diocesi, parrocchie e monasteri. Finora ne ha già distribuite oltre 4 milioni. Non particole qualsiasi: «A confezionarle artigianalmente, a una a una, sono assassini pentiti talvolta condannati all’ergastolo, nei quali io ed Ennio Doris, il patron di Mediolanum che mi sostiene in quest’avventura, vediamo il volto di Cristo». I primi li ha reclutati nel carcere di Opera. Oggi vi sono laboratori in 16 Paesi, l’ultimo sta per aprire nella prigione di Itaúna, in Brasile. Mosca Mondadori vive per l’Eucaristia. Dall’età di 9 anni, va a messa e si comunica tutti i giorni. Spesso la moglie Caterina Roggero, docente di cultura araba alla Statale di Milano, e i tre figli di 14, 12 e 9 anni si sentono dire da lui: «Scusate, devo andare a parlare con Gesù».

Credo che l’unico contatto religioso di suo bisnonno fosse il baccalà dei frati del Barana, che il fattorino delle Officine grafiche di Verona gli portava il venerdì.

«Però mia madre Nicoletta ricorda che i suoi nonni Arnoldo e Andreina aiutavano l’orfanotrofio di Meina, vicino alla villa sul lago Maggiore dove ospitavano Thomas Mann ed Ernest Hemingway».

E Giovanni Mosca era credente?

«Sì, molto. La madre Norma era morta dandolo alla luce. Prima di uscire di casa, il nonno mandava con la mano un bacio all’immagine della Madonna, cui era molto devoto. Aveva una grazia e una signorilità innate. Andavo spesso a pranzo da lui. Mi leggeva Ricordi di scuola, il suo libro più bello. Viveva al numero 5 di via Galilei, a Milano, dove abitavano anche Dino Buzzati e Gaetano Afeltra. Agli esordi come fumettista, Federico Fellini andava lì a consegnargli i propri disegni».

Ha mai rimproverato a suo padre Paolo la stagione di «Playboy»?

«No. Parlavamo solo del senso della vita. Lo portai da Giovanni Paolo II. Riscoprì la dimensione spirituale. Scrisse Lettera al Papa, in cui dava del tu a Wojtyla. È la dichiarazione d’amore di un figlio».

Si esibì persino al Cantagiro.

«La sua era un’inquietudine creativa».

Dello zio Maurizio Mosca che mi dice?

«L’onestà fatta persona. In tv aveva un’audience da star, ma si accontentava dell’equivalente in lire di 2.500 euro».

La descrivono come un mistico.

«Gesù è la persona che conosco meglio e che mi conosce meglio di ogni altra. L’ho messo al primo posto. Se questo è misticismo, allora sono mistico».

Ma passa per santo o per picchiatello?

«Qualcuno mi prende per matto, specie a causa delle ostie fatte in galera. Ma io guardo ai frutti: danno lavoro a 70 reclusi e sfamano 200 loro familiari».

A 9 anni che cosa le è accaduto?

«Frequentavo la scuola cattolica Vittoria Colonna. Per la seconda comunione ci portarono sul prato dell’abbazia di Viboldone. Suor Ignazia Angelini, che sta ancora lì, lo rammenta. Appena ricevuta l’ostia, avvertii una ferita nel cuore, come se una freccia lo avesse trapassato, e una gioia di cui non capivo l’0rigine. La coscienza mi diceva: questo alimento viene dal Cielo, è il pane del futuro. Tutti i giorni provo ancora una tale beatitudine…».

Della prima comunione cosa ricorda?

«Nulla. Alla prima confessione svenni per l’emozione. Finii in infermeria».

Che peccati poteva accusare a 9 anni?

«Non lo so. Non proferii parola».

Da piccolo faceva il chierichetto?

«No, anzi scappavo dal catechismo: a Milano 3 saltai giù dal balcone del primo piano durante la lezione. Non ne potevo più, mi annoiavo. Ero attratto solo dal tabernacolo. Tutto ciò che suonava canonico, obbligatorio, mi dava fastidio».

Perché non è diventato sacerdote?

«Lo faccio da laico. Non mi sarebbe dispiaciuto essere un prete di strada, come don Tonino Bello e don Oreste Benzi».

Don Benzi mi disse: «Per stare in piedi, bisogna mettersi in ginocchio».

«Stupendo! Amavo don Oreste perché era goloso come me. Mi fece conoscere una trattoria di Rimini dove servono una crema paradisiaca. Anche papa Wojtyla era goloso, sa? E pure san Francesco: prima di morire, chiese a una dama di Perugia dei biscotti alla mandorla, li assaggiò e spirò. A Gerusalemme alloggiò all’Austrian hospice solo per la Sachertorte».

Quand’è che lei si mette in ginocchio?

«Mi alzo alle 6 e prego santa Teresina di Lisieux. Recito la sua novena delle rose: 24 Gloria Patri, quanti furono gli anni della sua vita. Alle 8.30 vado a messa a Santa Maria delle Grazie al Naviglio o a San Gottardo o a Sant’Alessandro».

Prega tanto durante il giorno?

«La preghiera è come il respiro».

E prega ad alta voce prima dei pasti?

«Sì. Al ristorante lo faccio mentalmente. Non voglio imbarazzare nessuno».

«Il senso del Pane» com’è nato?

«Davanti al Santissimo. Gli ho chiesto: come posso testimoniarti? La risposta è stata immediata: va’ a Opera, produci ostie con chi si è macchiato di crimini e falle consacrare al Papa. Giacinto Siciliano, oggi direttore del carcere di San Vittore, ha capito e mi ha aiutato».

Quali materie prime adoperate?

«Farina di grano doppio zero, acqua filtrata, amido di frumento».

Fa concorrenza alle carmelitane.

«No, alle ostie “made in China”».

Non mi dica.

«Altroché. Invece i nostri detenuti sono in regola, sono assunti da una cooperativa sociale. Fra loro abbiamo anche non battezzati e musulmani. Questo pane è per tutti. Quando Gesù lo moltiplicò sul mare di Galilea non si mise a distinguere fra ebrei e non ebrei».

Lei crede davvero che l’ostia consacrata si trasformi nel corpo di Cristo o pensa che sia solo una simbologia?

«Non ci credo perché mi è stato insegnato. Ho la certezza che sia così».

Un tempo per comunicarsi era vietato mangiare e bere dalla mezzanotte.

«Sono contrario. Gesù e gli apostoli nell’Ultima Cena desinarono e subito dopo il Maestro istituì l’Eucaristia».

Lei si definisce «di passaggio su questa terra». Lo scopo del viaggio qual è?

«Mettere a frutto i talenti ricevuti».

Per suo padre il viaggio fu un calvario.

«Un ictus lo colpì nel 2008. Non poté più né parlare né scrivere. Gli sono rimasto accanto per sei anni, sino all’ultimo respiro. E lì ho scoperto che la morte è una nascita. L’anima ci sopravvive».

È stato vicino anche ad Alda Merini.

«Per lei dovevo tenermi pronto a qualsiasi ora. Telefonava in piena notte: “Scrivi!”. E mi dettava i versi, perché non sarebbe stata in grado di riconoscere i propri appunti. Era devotissima a Rita da Cascia, andavamo a messa insieme nella chiesa della Barona intitolata alla santa. Pregando nella basilica di Assisi, mi venne un’ispirazione: proporle un’opera sul Poverello. Buttò giù di getto Francesco, che poi fu musicata da Lucio Dalla».

Un giorno la poetessa fermò per strada Enrico Cuccia, stendendo la mano. «Ho fame», gli disse. «Buon segno», rispose il banchiere, e tirò dritto. L’Eucaristia nutre l’anima però non sfama.

«Precipitò nell’indigenza al ritorno da Taranto, dopo che era finito il matrimonio con Michele Pierri. Barattava i pasti in trattoria con i librini che gli stampava Alberto Casiraghy di Pulcinoelefante».

Lei ha presieduto il Conservatorio di Milano. Che cosa cercava nella musica?

«È l’arte più vicina al Cielo. Una definizione di Alda che ha sempre trovato d’accordo il mio amico Ennio Morricone. Formai un’orchestra con 24 ragazzi rom che suonavano violini e fisarmoniche. Chiesi a Franco Battiato e Roberto Cacciapaglia di tenerli a battesimo. E affidai i pc degli uffici a Luigi Celeste, detenuto a Bollate per omicidio. È diventato uno dei migliori informatici d’Italia».

Perché commissionò «La Porta» di Lampedusa a Mimmo Paladino?

«Nel 2005 andai sull’isola e mi riconobbi negli occhi dei migranti».

Molti ritengono che sia in corso un’invasione e lei invece spalanca l’uscio.

«L’Europa rischia di atrofizzarsi. Ha bisogno degli stranieri».

Dev’esserci un limite agli sbarchi?

«Siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre. Chi lascia i fratelli fuori di casa?».

Gesù si trattenne: ne resuscitò tre e ne guarì 23, secondo l’evangelista Luca.

«Ma continua a salvarli da 2.000 anni».

Se fosse nato in una remota foresta del Borneo, non farebbe la comunione.

«Il bisogno di Dio è inscritto nel nostro genoma. Ci ha creati a sua immagine. Troverei lo stesso il contatto con il mistero. Lo Spirito Santo è dovunque».

Fosse prete, chi non assolverebbe?

«I tirchi e coloro che non si pentono».

Come s’immagina l’aldilà?

«Non ho bisogno di prefigurarmelo. Con l’Eucaristia lo vedo nell’aldiquà».

Fonte: Stefano Lorenzetto | Corriere.it

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