È un’immagine che forse, nelle ore dello sfacelo turco, è sfuggita. Un gruppetto di soldati russi sul fronte ucraino aveva cercato riparo dal gelo in una buca. Dall’alto un drone sgancia un ordigno, esattamente sopra di loro: ma i sei appena accennano a muoversi e ricadono, come paralizzati. Paralizzati dal gelo, il silenzioso assassino delle guerre a quelle latitudini. Mi è venuto in mente un passo del diario di mio padre Egisto, alpino con la Julia sul Don, gennaio 1943:
«Venuta l’alba, non appena superato un crinale arrivammo a un tiro di schioppo da cinque o sei alpini seduti o accucciati a cerchio. In mezzo agli alpini c’era un resto di fuoco, c’erano delle brage accese. Gli alpini erano tutti morti. I corpi erano irrigiditi come l’assideramento li aveva colti e fulminati, facevano un tutto con la neve e il ghiaccio. Uno di noi, un friulano, commentò: “Can del l’ost.. di un duce”. Non fu detto altro. Con la coda dell’occhio, camminando, guardai l’ultimo. Aveva gli occhi pieni di brina» . Quanto noi uomini dimentichiamo in fretta, ho pensato. Io so qualcosa del Don, i miei figli poco, i sedicenni, credo, quasi niente. E l’atroce giostra ricomincia a girare. L’altra sera però ho visto un film appena uscito, “La seconda via”, coprodotto dai Rai Cinema. Un film sulla Ritirata di Russia di un regista, Alessandro Garilli, che da sedici anni, testardo, lavorava a questo progetto. Un manipolo di appena sei uomini, negli ultimi giorni del gennaio ’43, allo sbando, con 30 gradi sotto zero, cerca la salvezza oltre le linee nemiche. Hanno un mulo, una slitta e nessuna direzione, se non la loro disperata voglia di vivere. Io ho visto tanti documentari su quei giorni, e le foto delle colonne nere dei soldati arrancanti nella neve, tra i morti. Ma questo film mi ha restituito le facce, gli occhi, le voci di quegli uomini coetanei del mio giovane padre. E i sogni, e la loro memoria dei figli, e le lettere della fidanzata. Che colpo al cuore: così dovevi essere tu, papà, ragazzo come non ti ho mai conosciuto, tu che non cedevi, quando stavi per crollare, perché pensavi a tua madre, che ti aspettava. Poi, Garrilli immagina che i sei con la slitta e il mulo si accampino a dormire attorno a un povero fuoco di sterpaglie. Due staranno di guardia: «Mi raccomando, neh? – si dicono
– che, se si spegne, siamo morti». Il film prosegue. I sei raggiungono finalmente altri italiani, un rifugio, mangiano, sognano le loro donne. Allo spettatore si apre un refolo di speranza nel cuore. (In fondo, da ultimo anche mio padre e i suoi compagni erano rimasti in dodici). Ma lentamente capisci che no, quella non è una via di uscita dalla Sacca, quella attorno alle bragi del fuoco moribondo è la “seconda via”. Uguale alla via degli ignoti soldati incontrati da mio padre una notte nella steppa ghiacciata attorno a un falò – seduti ancora, come vivi. Il film è stato presentato al Senato. Ma siamo noi e soprattutto i figli e i nipoti che dovremmo vederlo. Fa male, certo: ti senti come delle mani che ti serrano e chiudono il cuore. Però li riconosci, quei soldati, ragazzi, come gli ucraini oggi, come quei disgraziati russi congelati due giorni fa in una buca. Anche loro, ne sono certa, sognavano la fidanzata. La memoria, che scompare tanto veloce da una generazione all’altra, è da custodire come un tesoro. I potenti, ebbri di orgoglio, chiusi nelle loro torri inaccessibili, mandano a morire. Ma a morire sono sempre i fratelli, i figli, i padri: che, cedendo infine alla malia del gelo, sognavano i loro bambini.
Fonte: Marina CORRADI | Avvenire.it