Qualche giorno fa una ex studentessa è venuta a trovarmi. Avevo davanti una donna luminosa che, ripercorrendo il sentiero dei ricordi, mi ha raccontato un episodio per lei fondamentale e di cui non avevo memoria. Aveva cambiato scuola dopo un primo anno di superiori molto doloroso: la sua timidezza, che non era stata accolta o capita dagli insegnanti, l’aveva portata a sentirsi un’incapace.
Quando è approdata da noi per il secondo anno, ho ascoltato la sua storia per poterne prender parte in modo utile. Ho cercato di spiegarle che la timidezza (dal latino timere, aver paura) ritenuta un difetto nella cultura della performance e dell’immagine, è in realtà l’atteggiamento normale di chi, cominciando a fare i conti con la realtà, si mette a distanza di sicurezza per non farsi troppo male. Le promisi che, lavorando insieme, quella «paura» sarebbe divenuta «coraggio» (è coraggioso solo chi conosce la paura della vita e la affronta), come era accaduto anche a me alla sua età. «Non ho dimenticato le sue parole» mi diceva la donna che, dieci anni prima, si nascondeva in una quindicenne «in-timidita» da adulti che interpretavano il loro ruolo a guisa di giudici e non di giardinieri: un germoglio è la «incapacità» o la «timidezza» dell’albero? Non è strapazzandolo che cresce e rinforza, ma curandone le radici e rispettandone i tempi. Ma c’era dell’altro, ed era per me.
Mi ha chiesto, memore delle liste di letture personalizzate dei tempi scolastici, qualche titolo da leggere. Lei in quel momento stava rileggendo uno dei libri che le avevo consigliato al liceo, stupita di come le sembrasse nuovo (nuovo è ciò che ha sempre da dare, a ogni incontro, qualcosa di inatteso, altrimenti è solo recente: Dante è nuovo, l’articolo che state leggendo è recente). Le ho chiesto allora di mandarmi la pagina che l’aveva colpita di più.
Eccola: «Pericolose e maligne sono soltanto le tristezze che si portano tra la gente, per soverchiarle col rumore; come malattie, trattate superficialmente, fanno solo un passo indietro e dopo una breve pausa erompono tanto più paurosamente; e sono vita, vita non vissuta, avvilita, perduta, di cui si può morire». C’è una misteriosa capacità delle parole di raggiungerci attraverso messaggeri inattesi, la pagina scelta dalla mia ex alunna era proprio per me e continuava così: «Queste tristezze sono i momenti in cui qualcosa di nuovo è entrato nel nostro cuore, è penetrato nella sua camera più interna e anche là non è più, è già nel sangue. Ci si potrebbe persuadere che nulla sia accaduto, ma noi ci siamo trasformati come si trasforma una casa in cui sia entrato un ospite. Noi non possiamo dire chi sia entrato, forse non lo sapremo mai, ma molti indizi suggeriscono che il futuro entra in noi in questa maniera per trasformarsi in noi, molto prima che accada. Quanto più calmi, pazienti e aperti noi siamo nella tristezza, tanto più profondo e infallibile entra in noi il nuovo, tanto meglio noi ce lo conquistiamo, tanto più sarà nostro destino».
La tristezza, il nuovo e il futuro come un unico fenomeno, icasticamente riassunto così: «Come possiamo dimenticarci di quegli antichi miti alle origini di tutti i popoli? I miti dei draghi che si tramutano nel momento supremo in principesse; tutti i draghi della nostra vita sono principesse, che attendono solo di vederci un giorno belli e coraggiosi. Forse ogni terrore è nel fondo ultimo l’inermità che vuole aiuto da noi». Queste parole sono tratte dalle Lettere a un giovane poeta in cui l’autore, il poeta Rainer Maria Rilke, intrattiene una sorprendente corrispondenza con un giovane che chiede consiglio sulla propria vocazione. Quelle parole che anni fa avevo suggerito alla mia ex alunna perché desse un nome più vero e quindi un po’ di amore alla sua timidezza, «una inermità in cerca di aiuto», servivano ora a me.
Infatti proprio in quelle ore ero invischiato in alcune «tristezze»: il tumore diagnosticato a un’amica e il ricovero di una studentessa. Rilke mi richiamava a cambiare sguardo, consapevole che la forza che abbiamo di fronte al mondo consiste nel trasformare il modo in cui lo guardiamo, le sue parole (calmi, pazienti, aperti) mi restituivano il coraggio della scelta, come se mi dicesse: «Il problema non è la tristezza, ma che cosa ci fai. Non usarla male, come alibi per disperare e inaridirti, ma come occasione per trasformarti e così liberare la principessa dal drago. E quindi: che cosa puoi fare tu?». C’è sempre una possibilità creativa nascosta nel duro richiamo dell’esperienza della vita, non è la «fine» ma il «confine»: frontiera su un territorio inesplorato che ci appartiene più di quanto crediamo. Questo invito lo ricevevo da una ex alunna.
Scuola non è l’edificio o un periodo scolastico, ma un modo di essere fianco a fianco, adulti e giovani, per diventare, insieme, discepoli della vita, che chiede di crescere in noi sempre nello stesso testardo modo: amando e lasciandosi amare di più, anche se il richiamo si presenta, come gli dei antichi, «sotto mentite spoglie», persino quelle di sentimenti difficili da accogliere, come la tristezza. Una tristezza dovuta alla paura (la mia timidezza) della malattia fisica e psichica, di fronte alle quali mi smarrisco. «Non essere timido» mi ricordava la mia studentessa divenuta maestra. Stava a me scegliere che cosa fare di quelle tristezze, da questo sarebbe dipeso chi diventare. Affrontare il drago o fuggire? Disperare o cambiare sguardo? Occupandomi delle due malattie mi sarei occupato di me, solo così avrei trasformato la paura in coraggio, il confine in relazione, il limite in creazione, la tristezza in futuro. Dovevo scegliere — non lo imparo mai abbastanza — tra amore e disamore: farmi (più) vivo o farmi i fatti miei?
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it