Titola così Dagospia, concludendo però la notizia con una domanda sbagliata, o almeno con una illazione del tutto arbitraria. Perché una donna che lascia il lavoro all’apice della carriera dovrebbe farlo perché “non regge la pressione”? Come spiega la Wojcicki, che è stata ai vertici di Google ed è dal 2014 a Youtube, quindi all’apice che più apice non si può al mondo, semplicemente vuole “iniziare un nuovo capitolo incentrato sulla mia famiglia, sulla salute e sui progetti personali che mi appassionano”. Cioè non sta rinunciando, dimessa e stremata, non si sta arrendendo con la coda fra le gambe. Si sta andando a prendere la parte migliore della vita.
La verità è che, ancora una volta tocca ribadire l’ovvio, uomini e donne sono diversi. Un uomo può anche essere totalmente (o quasi) assorbito dal proprio lavoro, trovare lì tutte le gratificazioni, ed essere anche capace di tenere fuori la vita personale, di darle lo spazio che avanza senza soffrire. Un uomo può lavorare dalla mattina alla sera per anni, e, probabilmente se ha il potere e i soldi, trovarlo anche gratificante. Poi ci sono anche uomini che amano molto il loro lavoro al di là delle gratificazioni, lo amano per la sua stessa natura (artigiani, ma anche studiosi, o semplicemente uomini che fanno bene quello che fanno e trovano lì tutta la loro identità).
Una donna no. Non è questione di discriminazione, non è il soffitto di cristallo. È che il mondo del lavoro continua ad avere tempi, regole, modalità maschili, cioè adattabili a una mente monotematica, non alla complessità femminile che ha bisogno di relazioni non come “contorno” ma come piatto forte della propria vita: non vorrei fare battute cretine sul mononeurone, ma è vero che l’uomo riesce a pensare solo al suo obiettivo, e a escludere dal mirino tutto il resto, senza soffrirne.
Una donna no. Una madre che lavora, per esempio, è sempre madre anche quando è al lavoro, e la sua testa è sui due fronti (almeno due) insieme. Ciò non significa che non funzioni altrettanto bene, e le carriere delle suddette donne lo dimostrano, così come quelle di moltissime altre donne al top. E non è che noi donne vogliamo di meno, che siamo meno ambiziose, è che lo siamo di più. Vogliamo che la nostra vita sia piena, armoniosa, feconda, e questo vale anche per le donne che per qualsiasi motivo, scelto o no, non sono diventate madri. La donna dà comunque la vita, fiorisce in una serie di relazioni che vanno custodite, che hanno bisogno di tempo ed energie.
Adesso se una femminista passasse di qua mi direbbe che è colpa del fatto che il lavoro di cura ricade principalmente sulle donne, per colpa degli uomini cattivi e maschilisti. Io credo invece che a noi il lavoro di cura piaccia. Non credo che la supertopmanager di Google e Youtube abbia lasciato il suo lavoro perché il marito non passa lo straccio a terra. Penso che possa pagare uno stuolo, un esercito di persone che svolgano mansioni noiose e poco gratificanti al posto suo. La verità è che vuole occuparsi della famiglia, dice, e vuole farlo lei, non pagare qualcuno che si prenda le cose belle della sua vita al posto suo.
Possibile che non si riesca mai a introdurre questo elemento nel dibattito sul lavoro femminile in Italia? Possibile che si finisca sempre e solo per parlare di quote rosa, asili nido aziendali, congedi parentali per i padri. Possibile che nessuno metta mai a tema il problema delle donne che vogliono sì lavorare, ma con ritmi e modi femminili? E di quelle che invece non vorrebbero lavorare, almeno negli anni in cui i bambini sono piccoli? Possibile che in molti paesi europei gli assegni familiari permettano la libertà di scegliere quanto tempo dedicare all’infanzia dei propri figli, mentre qui in Italia sono addirittura diminuiti gli importi degli assegni, con l’ultima riforma? Possibile che l’unica libertà tutelata debba essere quella di tornare al lavoro prima possibile, e mai quella di rimanere a casa più a lungo, senza dover mangiare alla mensa dei poveri? Possibile che l’unica volta che figli e lavoro vengono accostati nella stessa frase, è per dire che le donne che hanno avuto figli potrebbero andare in pensione 4 mesi prima per ciascun figlio? Quando tutte le statistiche dicono che le donne invecchiano meno e muoiono più tardi, che senso ha? Perché quei 4 mesi non me li avete dati quando ne avevo disperato bisogno, quando mio figlio prendeva solo il mio latte, e io dovevo lasciarlo 8 ore al giorno (con il tragitto), facendo una violenza mostruosa su di me e su di lui? Che senso ha? Chi pensa al lavoro femminile evidentemente o non ha avuto figli, o accecata dall’ideologia ha deciso che per un lattante la madre e una maestra di asilo sono intercambiabili, che manco alla cagna appena diventata mamma viene fatta una violenza del genere? Perché gli imprevisti familiari, un figlio malato, uno sciopero dei mezzi, quattro megainterrogazioni il giorno dopo, amici a dormire, insomma tutte le variabili infinite di una vita familiare non possono mai essere contemplate con elasticità (tipo oggi scappo un po’ prima, sfamo dieci ragazzi e di notte mando tutte le mail arretrate), neppure nelle fortunate professioni che lo consentirebbero? Perché devo ancora sentire di amiche che escono dall’ufficio alle sette di sera sentendosi in colpa perché se ne vanno presto, guardate con superiorità dai colleghi maschi, che magari hanno cazzeggiato metà giornata ma rimangono alla scrivania perché altrimenti non dimostrano fedeltà alla causa? Quando vorremo tutelare anche le donne che sono costrette a lavorare con mansioni poco qualificate e stipendi bassi, e sarebbero molto ma molto più contente di stare a casa (chissà quanti mesi di stipendio ci vogliono per comprare la stola “pensati libera”), dando aiuti davvero significativi come in Francia e in Inghilterra a chi fa figli?
Quando vogliamo aprire il faldone “lavoro femminile” nel modo giusto, dove femminile sia davvero qualificativo, come aggettivo, e non un’appendice a un mondo fatto di maschi per i maschi?
Fonte: BlogCostanzaMiriano.com