i recente ho visto due film che ruotano attorno all’amicizia dei protagonisti: Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin, spiriti di vendetta, simili alle Arpie greche, di un’immaginaria isola irlandese) di Martin McDonagh (regista del bellissimo Tre manifesti a Ebbing) e Le otto montagne di Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, tratto dal bel libro di Paolo Cognetti.
Nel primo film due amici, ogni giorno, dopo il lavoro, si ritrovano a bere nel pub del villaggio, ma all’improvviso uno dichiara all’altro che non vuole più vederlo perché lui, violinista, non può sprecare il tempo in chiacchiere inutili con uno stupido pastore: deve impegnarsi a comporre una melodia immortale. Così si scatena un duello grottesco che coinvolge i tranquilli abitanti di un villaggio incastonato tra mare e colline.
Nel secondo film i due amici sono invece legati dalla montagna: uno le appartiene per nascita, l’altro per vocazione. Nonostante lo scorrere del tempo e le giravolte della vita la loro amicizia rimane salda come le meravigliose montagne che le fanno, non da sfondo, ma da fondamento.
Che cosa hanno in comune due film così diversi? La ricerca di ciò a cui oggi chiediamo salvezza: l’incontro d’amore con le cose e con gli altri. Nell’uno e nell’altro film la creazione diventa interlocutrice silenziosa della ricerca di un modo nuovo di vivere da parte dei protagonisti. Lo trovano?
Già il famoso esploratore islandese di Leopardi, dopo un lungo viaggio ai confini del mondo, aveva scovato e interrogato la Natura sul segreto della felicità, senza però ricevere alcuna risposta se non la morte: la Natura fa il suo corso ed è a noi indifferente, come ci ha ricordato il recente terremoto (anche se indifferenti — cioè incapaci di cogliere le differenze — a volte siamo noi più preoccupati di Sanremo che di quelle popolazioni).
Ma in questi due film non c’è la Natura, astrazione senza relazione di una cultura che legge la realtà come una macchina (emblematico nel secondo film il momento in cui il montanaro dice a una ragazza che non esiste la Natura ma quel prato, quel bosco… cose con un nome che permette una relazione viva), ma c’è la Creazione, parola che, senza bisogno di aderire a una fede, lascia intatto il mistero di un ordine iscritto nelle cose che diventa quindi un invito alla scoperta, all’incontro, alla cura.
La bellezza del mondo è per me una domanda assordante: le cose non sono tenute a essere belle eppure lottano per esserlo, e in questo per me c’è una promessa, una richiesta, un’ispirazione.
Anche le relazioni tra gli uomini potrebbero essere così, ma l’uomo preferisce imporre la sua di legge.
Quando il musicista del primo film decide di non voler vedere mai più l’amico per creare il suo capolavoro, impone una legge che esclude l’altro se non è utile al proprio successo, un’ideologia che lo disancora dalla realtà e innesca la distruzione di sé e del mondo.
Di contro gli amici del secondo film non perdono se stessi proprio perché non si perdono tra loro.
I due film, in controtendenza per ritmo e fisicità del racconto, mi hanno aiutato a sentire con più precisione un bisogno che, con il tempo e in questo nostro tempo, cresce in me: un modo di vivere che, ridimensionata l’ossessione del fare per esistere, prediliga il ricevere per esistere, ricevere è infatti la condizione necessaria per incontrare cose e persone, sentire come propria carne la corteccia di un albero e la pelle di una persona.
Quando corazziamo l’ego impaurito dalla morte con illusioni di immortalità, come il famoso cavaliere inesistente di Calvino, tutto armatura, cose e persone diventano ostacolo o strumento: non esistono più con noi ma per noi, da creature, e quindi da consanguinei, si riducono in scorte ed, esaurite, in scorie.
Per imparare a sentire il mondo come mia carne ho quindi cominciato a fare due esercizi. Il primo è camminare, attività ancora libera da performance (sebbene adesso anche i passi vengano contati per smaltire calorie) e il cui fine è l’azione stessa del camminare. Camminare risana la relazione tra corpo e spirito, tra corpo e mondo: si entra in contatto, con tatto, con ogni cosa/persona che diventa una parola rivolta solo a noi. Basta poco ogni giorno, purché si usino tutti e cinque i sensi (senza telefono, e faccio fatica): l’inesperienza corporea e feriale del mondo è una delle ferite più gravi della nostra psiche.
Qualcuno penserà che ho tempo da perdere, quando si tratta proprio di una scelta che ne sottrae ad attività più utili, redditizie, divertenti. Mi obbligo a camminare, non a vagare come un flâneur, ma libero da secondi fini, a parte raggiungere i luoghi dove sono diretto.
Camminare è un esercizio di insostituibilità: non può farlo nessuno al mio posto.
Esercitarsi a essere insostituibili serve a diventarlo e si scopre quanto spesso vendiamo il nostro corpo al nulla.
La vita, a esserne discepoli, è maestra generosa: risponde nella misura in cui siamo presenti e facciamo domande.
Un boccone di realtà mi nutre molto più di uno digitale e rende il cuore più intelligente: attento e paziente, le due qualità dell’amore. Faccio scoperte e ricevo ispirazioni, come un Colombo metropolitano che trova il Nuovo Mondo, cioè un mondo rinnovato.
Il secondo esercizio è quello del «come stai». All’inizio dei messaggi non scrivo più «come stai?» (spesso sostituito dalla formula «spero tu stia bene», per evitare la risposta altrui) per poi chiedere ciò che voglio, ma dico subito ciò che voglio e solo alla fine chiedo: «ma tu, come stai?». Questo permette agli altri, come alle cose mentre cammino, di avere lo spaziotempo per dirsi, essere il fine e non un mezzo. Il verbo «stare» del «come stai?» significa «come abiti la vita? dove sei?».
Ho bisogno, io per primo in un contesto così veloce e disincarnato, di sostare (so stare?), cioè di una «stanza» per raccontare.
I due esercizi (ognuno può trovare i suoi), camminare e far stanza, mi stanno aiutando a ricevere la vita che non riesce a raggiungermi quando sono altrove, impegnato a impormi più che a dispormi.
«Cammino» e «stanza» danno a cose e persone la possibilità di un incontro d’amore e, insieme, diventiamo il centro del mondo, anche se non fa notizia. Ma per me la silenziosa notizia è questa: se un punto qualsiasi dell’universo può diventare il suo centro, forse questa è la legge della gioia quotidiana.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it