Nella sfida con i regimi non c’è futuro senza formazione di qualità e permanente. La qualità del lavoro è l’unica via per contrastare le potenti spinte verso le disuguaglianze
Con la Guerra Ucraina è diventato evidente che la speranza che aveva illuminato la caduta del muro di Berlino – la progressiva affermazione delle liberal democrazie su scala globale – è ormai venuta a cadere. Al contrario, molti ritengono che la nuova fase della globalizzazione sia caratterizzata dalla competizione — che rischia di degenerare in conflitto aperto — tra democrazie e autocrazie.
Le semplificazioni, però, non aiutano. Secondo i dati di Freedom House, dal 2006 al 2020 il numero degli Stati democratici è sceso da 89 a 82, quelli non democratici da 45 a 54, mentre i Paesi non classificabili sono 60. In effetti, distinguere nettamente tra i due campi non è semplice. Ad esempio l’ Ungheria di Orbán, che pure fa parte della UE, dove la mettiamo? In giro per il mondo esiste una casistica variegata che si dispone lungo un continuum che va dalle democrazie occidentali fino alle dittature di Kim Jong -un in Corea del Nord. Nella stessa Russia di Putin, la Duma è formalmente un parlamento elettivo.
Nella sostanza, la linea di demarcazione riguarda il posto della libertà. Da una parte ci sono i modelli che l’affermano e la promuovono, dall’altra quelli che la temono e la reprimono. È su questo punto che il modello occidentale fonda la propria forza e attrattiva.
Ora però, le cose si fanno di nuovo complicate. Nell’ambiente tecnologico che va formandosi con la digitalizzazione, possiamo ancora seriamente credere nella libertà?
Davanti alla protervia dei tiranni, il difficile compito che aspetta le democrazie nei prossimi anni non è solo difendersi dagli attacchi esterni, bensì dimostrare che anche nell’era della digitalizzazione la libertà – e con essa l’iniziativa personale, il pluralismo, la tolleranza, la sussidiarietà, la solidarietà, la pace – è ancora la carta vincente per creare un’organizzazione sociale superiore a un modello centralizzato e controllato.
La partita giocata (e vinta) dopo la fine della seconda guerra mondiale con il modello centralistico della Unione sovietica si ripropone così su una scala e in condizioni del tutto nuove. Una sfida che coinvolge piani molto diversi: politico, economico, scientifico, culturale.
Per un Occidente che appare per molti aspetti smarrito, questa nuova sfida potrebbe essere fatale, facendo esplodere le tante contraddizioni che lo attraversano. Ma potrebbe, al contrario, costituire l’occasione per ritrovarsi. Per tornare a dirsi chi è e chi vuole essere.
Vincere questa sfida non è semplice. Al di là di tutto, però, essa richiede una scelta di fondo – una vera e propria opzione di civiltà – da tradurre poi in decisioni concrete per creare un mondo desiderabile. Fondamentalmente si tratta di curare e far crescere l’intelligenza umana, nella sua integralità, individuale e collettiva. Cioè di qualificare l’idea di libertà ereditata dal XX secolo.
I big data, l’intelligenza artificiale, il metaverso stanno già radicalmente cambiando il modo in cui conosciamo il mondo e interveniamo su di esso. Nei prossimi anni, il confronto con i modelli non democratici passerà dalla nostra capacità di impiegare e sviluppare queste tecnologie. Che possono permettere forme e modalità di sorveglianza e centralizzazione mai viste. Soprattutto tenendo conto dell’aumento esponenziale di complessità che le nostre organizzazioni sociali stanno registrando.
Il cuore del problema è dimostrare che i modelli altamente digitalizzati sono compatibili, e anzi funzionano meglio, in società decentrate e plurali. Un’ipotesi tutt’altro che scontata e a costo zero: solo con la scelta consapevole di sovrainvestire sulle persone e la qualità delle nostre relazioni personali e istituzionali possiamo pensare di farcela. Non in astratto, ma molto concretamente, con un massiccio e deliberato investimento nell’educazione, nelle organizzazioni, nei territori.
La formazione è dunque tanto strategica quanto la ricerca e le infrastrutture. Non c’è futuro senza scuola di qualità e senza formazione permanente.
Ma non si tratta solo di questo. L’intelligenza diffusa può crescere solo in organizzazioni (imprese, amministrazioni pubbliche, scuole, ospedali, media…) che non riducono i propri collaboratori a meri esecutori di protocolli e procedure ma che, al contrario, valorizzano la creatività, la responsabilità, l’autonomia di giudizio che si esprimono nel lavoro umano. Retribuendolo decentemente. La qualità del lavoro è l’unica via, alla fine, per contrastare efficacemente le potenti spinte verso le disuguaglianze.
E la stessa cosa vale per le città in cui viviamo, che sono le prime palestre dove si sviluppa il saper vivere, il saper fare e il saper pensare mediante cui la libertà e la democrazia si rigenerano.
Di sicuro non sarà una partita né facile né veloce. Implicherà il piano tecnologico, forse (speriamo di no) militare, ma soprattutto spirituale: al fondo della questione c’è infatti la libertà e quindi la questione della dignità della vita umana.
Per la democrazie occidentali la guerra non può che essere l’ultima opzione. Il nostro problema è rispondere alla sfida che ci viene posta prima di tutto rinnovando e rafforzando il nostro modello. E tornando a interrogarci su quello che vogliamo davvero essere.
Proprio qui sta il punto nevralgico: è chiaro che la libertà di cui abbiamo bisogno nel XXI secolo è una libertà più matura e consapevole di quella della fine del XX secolo. Dopo la stagione dell’individualismo radicale (ancora ampiamente prevalente), abbiamo bisogno di una libertà intelligente, curata e coltivata, capace di essere giocata responsabilmente nella relazione con gli altri e con l’ambiente. Difficile, ma affascinante.
Fonte: Mauro MAGATTI | Corriere.it