Oggi si celebra la giornata della felicità, festa inaugurata dall’Onu qualche anno fa su suggerimento del Bhutan che ha sostituito il Prodotto Interno Lordo con la Felicità Interna Lorda come criterio per giudicare un Paese. Solo dall’Oriente poteva provenire una proposta di felicità basata sull’armonia interiore e la calma, mentre in Occidente crediamo in una felicità ad alta tensione e incentrata sulla performance. Infatti poi da noi fioccano le classifiche stilate su dati più o meno quantificabili, che vedono la Finlandia al primo posto e l’Italia al quarantasettesimo: sarà così? Che cosa si chiede a una persona, e quindi a un Paese, quando domandiamo se è felice?
C’è una risposta trasversale capace di unire culture così diverse? Io direi: «la vita eterna», che non è la vita dopo la morte, ma quella di questo lunedì che o diventa eterno o non può essere neanche questo lunedì. Non bastano le performance dell’eccitazione e auto-realizzazione occidentali (piacere, potere, possesso) che fa del lunedì una fede produttiva ma sfinente, né la calma che placa questi desideri e si solleva sul lunedì come se non esistesse, anche se poi resta lì, da scalare. Eterna è per me l’esperienza del midollo della vita. Uso la parola midollo perché è ciò che Omero faceva per dire eternità, aiòn, originariamente il midollo osseo da cui si faceva dipendere la forza vitale (ungendo il corpo i Greci credevano di ripristinare il midollo). Ma, fuor di metafora, che cosa è questo midollo della felicità?
Marco racconta al capitolo 10 del suo vangelo, all’incrocio tra Oriente e Occidente, che un giorno un ragazzo placcò letteralmente Cristo per chiedergli: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Voleva il manuale di istruzioni per la felicità: non si riferiva alla vita dopo la morte, che non era nel suo orizzonte umano, ma a una vita felice subito, una vita piena, dato che la sua, pur essendo ricco come specificato dal testo, non gli bastava. Per dire «vita eterna» il ragazzo usa due parole: zoé (la vita che condividiamo con tutti i viventi, la vita della quale vivono piante, animali e uomini) aiònios, l’eterno in opposizione al tempo misurabile (chronos). Zoé aiònios è infatti usato nel vangelo per distinguerla dalla vita come psychè, il respiro, la vita che finisce, e infatti dalla stessa radice di aiònios viene l’avverbio greco per dire «sempre» (aieì). La vita eterna è quindi la vita «sempre», non misurabile in respiri o lunedì, una vita talmente profonda da usare il midollo osseo (non un sentimento) come controparte materiale. Di questa vita, a differenza di quella misurata in lunedì e respiri, facciamo esperienza quando diciamo che il tempo vola o si ferma, espressioni che indicano infatti momenti di profonda felicità. In italiano potremmo dire che la vita degli orologi è quella dell’essere viventi, mentre la vita eterna è quella dell’essere vivi.
Per la felicità non basta essere viventi, occorre essere vivi: se infatti avessimo la possibilità di scegliere se passare i nostri anni sedati e senza soffrire, o affrontando tutto ciò che la vita da svegli comporta, credo che sceglieremmo la seconda. Felicità e vita viva (eterna), midollo della vita, sono quindi in qualche modo sinonimi. I contadini romani usavano felice per le piante: arbor felix era semplicemente «l’albero che dà frutto», la pianta che raggiunge il suo scopo. Se la felicità è quindi di chi genera il suo frutto, la vita eterna, la vita da vivi, è quella in cui questo accade in ogni istante. È felice, ha vita eterna, chi dà frutto «sempre», in qualsiasi condizione. E come si fa? Nel capitolo successivo a quello del ragazzo ricco, Marco racconta un altro episodio che mi ha sempre spiazzato. Cristo, affamato, vede un fico rigoglioso, si avvicina ma non trova frutti e, benché il testo specifichi che non era stagione di raccolta, Cristo maledice l’albero. L’indomani passando di lì i discepoli vedono che l’albero è stecchito. Se si fosse voluto raccontare un miracolo scontato si sarebbe inventato che Cristo trova i fichi benché non sia la stagione, e invece fa il contrario: lascia un segno. Alla luce di tutti i passi in cui Cristo paragona la vita umana a un seme chiamato a dar frutto, credo che volesse rendere evidente ai suoi qualcosa che riguardava loro e non la pianta: a differenza degli alberi per gli uomini è sempre tempo di dar frutto, cioè di essere felici, non dipende da giorni, stagioni, condizioni esteriori, ma da una scelta fatta istante per istante. L’uomo può essere «sempre» felice, cioè dare «sempre» frutto, e questo dipende da quanta vita eterna è in lui.
Ma allora questa vita eterna che cosa è? Tutto ciò in cui io genero vita, do frutto: quando creo e quando amo, le due caratteristiche che Cristo attribuisce al Padre e quindi a sé come uomo. Credenti o no, la paternità di cui parla Cristo è un modo di indicare la capacità di generare continuamente, e la condizione di figlio è quella di chi riceve «sempre» questa vita per poi generarne altrettanta: dare «sempre» frutto. Infatti a quel ragazzo che gli chiede come avere la vita eterna risponde di lasciare tutto e di seguirlo, cioè di vivere la sua stessa vita di «figlio» (colui che tutto riceve per poi tutto dare) e di non perdere tempo dietro a cose che quel giovane aveva già verificato essere insoddisfacenti. Il ragazzo non volle e «se ne andò via triste»: gli succede ciò che succede a un albero sterile, non è «felice» (fecondo) ma «triste» (infecondo).
La felicità è «vita eterna» se riesco liberamente a trasformare ogni istante in materia per essere e fare ciò che solo io posso essere e fare: creare secondo i miei talenti e amare secondo le mie possibilità, né più né meno. E se questo può accadere scrivendo, camminando, cucinando, facendo una lezione, con la febbre, con l’ansia, con la paura… e tutte le declinazioni del quotidiano, il lunedì non diventa né una performance né un ostacolo, ma lo spazio-tempo dell’eterno, del midollo della vita. Vita e eterna devono andare insieme perché l’eterno è ciò che rende la vita «viva» e la vita è la materia prima che rende l’eterno «vivibile». Vorrei quindi che questa fosse per noi la giornata della vita eterna, che è far esperienza del midollo della vita, dare frutto anche di lunedì: far bene e con amore quello per cui siamo fatti e far essere nel bene e nell’amore quelli per cui siamo fatti. E questo non è né una performance né un vuoto interiore, ma uno spazio in cui, con un po’ di coraggio, si permette alla vita di raggiungerci e di moltiplicarsi in e attraverso di noi, con tutto quello che questo comporta di lacrime di gioia o di dolore, proprio quelle lacrime che Omero credeva fossero il frutto dello sciogliersi del midollo, l’eterno che si fa vivo, in ciascuno di noi. Chiedere «Sei felice?» in fondo è chiedere «Sei vivo?».
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it