“L’identità e le identità” è stato il tema della kermesse tedesca tornata a svolgersi in presenza dopo la pandemia. Da Benedetto XVI all’Ucraina, dalla politica alla teologia… La tre giorni di Colonia
Dove sta allora il nucleo dell’identità cristiana? Per Karl-Heinz Menke, teologo di Bonn e vincitore del Premio Ratzinger 2017, «coincide praticamente con lo sguardo a Cristo». Il cristianesimo non è una «palestra morale, una visione del mondo o una teoria», ma significa «far entrare Cristo nella propria vita, determinata da ferite e limiti», ha spiegato Menke nel suo intervento. I santi, in particolare, hanno mostrato come Cristo possa «trasformare la mia storia di peccato in redenzione». Come esempio ha citato Ignazio di Loyola. Per il fondatore dell’ordine dei Gesuiti, fu decisiva l’intuizione: «Non devo fare nulla di speciale, ma solo permettere a Cristo di entrare nella mia povertà e lasciare che mi trasformi».
Per Menke, la vita del francese Jacques Fesch è un esempio del fatto che non sono necessarie condizioni preliminari, se non il desiderio del cuore. Fesch, «dandy e assassino», nacque nel 1930 a Saint-Germain-en-Laye, ed è attualmente in corso il suo processo di beatificazione. Proveniva da una rispettabile famiglia di banchieri, si era sposato giovane, aveva lasciato moglie e figlio e aveva avuto un secondo figlio da un’altra donna. Quando decise di salpare per i mari del Sud in barca a vela, il padre gli rifiutò il denaro per acquistarla. Allora rapinò una banca e sparò a un poliziotto durante la fuga. In prigione arrivò a una conversione radicale e tenne un diario. Nei suoi ultimi appunti, prima di essere ghigliottinato nel 1957, scrive: «Tra cinque ore vedrò Gesù». Alla vigilia della sua esecuzione si riconciliò con la moglie. Secondo Menke, i suoi scritti mistici si possono annoverare tra i più grandi testi della letteratura cristiana.
Il vero indicatore della santità, secondo Menke, è la gioia: «Non ci sono santi tristi, ma solo gioiosi». La comunione con Cristo è un dono, quindi «non devo stabilire un programma per me stesso o paragonarmi con gli altri».
Un altro aspetto decisivo per Menke è questo: l’incontro con Cristo non è un fatto privato. Già i primi cristiani si distinguevano per un atteggiamento a dir poco rivoluzionario nei confronti della mentalità predominante nell’Impero romano. «Per loro, ogni singolo essere umano veniva elevato al grado di fratello o sorella», afferma il teologo. «Fin dalle origini i cristiani vissero la carità non solo verso gli altri cristiani, ma nei confronti di tutti». Un «rapporto privatizzato» sarebbe perciò in contrasto con il cristianesimo. Menke ritiene che furono soprattutto gli gnostici a fare della fede una questione privata.
Secondo Menke, i sacramenti contraddistinguono la dimensione comunionale del rapporto con Cristo, primo fra tutti il battesimo come inserimento nella comunione ecclesiale. «Tutti i sacramenti non sono mai destinati solo a me stesso.» Questo vale tanto per il matrimonio quanto per l’ordinazione sacerdotale, la cresima e soprattutto per l’Eucaristia.
La testimonianza di
suor Edith Kürpick, priora della Fraternità monastica di Gerusalemme a Colonia, testimonia come ciò si traduca concretamente nella vita. Le religiose vivono la loro vita monastica nel cuore della città. «Ogni città è un deserto, con il suo fascino e i suoi pericoli.» Descrive così la loro vocazione: «
Vogliamo essere servitrici della speranza attraverso la nostra vita e una liturgia aperta a tutti». Così, una parte delle religiose presta il suo servizio nel mondo del lavoro sotto l’“indicativo categorico” che ogni persona è amata incondizionatamente. Così
la fede diventa anche una sfida: «Resta saldo sulle tue gambe e vai per la tua strada».
Due eventi particolari nella Chiesa e nel mondo hanno caratterizzato i temi affrontati all’inizio e alla fine del Rhein-Meeting: la morte di Benedetto XVI e l’aggressione russa all’Ucraina. In entrambi gli incontri è emerso chiaramente il significato dell’identità cristiana vissuta.
All’apertura del Rhein-Meeting, venerdì sera, alcuni ex studenti hanno raccontato dei loro incontri con Joseph Ratzinger. Il teologo friburghese Josef Zöhrer lo conobbe nel 1971, quando era ancora un giovane studente. Quei tempi, ha spiegato Zöhrer, erano per certi versi molto simili ai nostri. «Tutto era messo in discussione, all’insegna del motto: “La Chiesa deve convertirsi al mondo”.» Tuttavia, all’epoca prevaleva una «euforica eccitazione per il nuovo inizio». Caduto in una crisi vocazionale, Zöhrer andò a Regensburg dal professor Ratzinger, docente di teologia che già godeva di una fama universale. «Mi sentii preso sul serio da lui sotto ogni punto di vista», anche se Ratzinger non gli aveva dato «nessuna risposta profonda». Al contrario, lo aveva incoraggiato a «osservare attentamente e verificare ciò che ha valore». Ratzinger, inoltre, ha sempre «tenuto il guinzaglio lungo» ai suoi dottorandi, di cui Zöhrer ha poi fatto parte, accordando loro «molta libertà», come una sorta di comunità in cammino. Era sempre chiaro cosa rappresentava per lui «la fede della Chiesa, qualcosa che riceviamo e non ci diamo da noi stessi». Così ogni incontro iniziava con la Santa Messa.
Ma Ratzinger ha sempre attribuito importanza alla precisione scientifica e capitava a volte che reagisse bruscamente, soprattutto di fronte agli schematismi, ha ricordato Zöhrer. È indicativo il fatto che Ratzinger non abbia fondato un sistema teologico o una scuola; tuttavia, come affermava Ireneo di Lione, è Gesù Cristo «il vero punto di riferimento a partire dal quale dobbiamo leggere e considerare la realtà in modo sempre nuovo». Così, la sua teologia è caratterizzata da un’apertura: essere in cammino verso Cristo come costante ricerca del suo volto.
Una volta, racconta Zöhrer, il famoso teologo Karl Rahner, che aveva appena pubblicato la sua opera Corso fondamentale sulla fede, fu invitato a un incontro con i dottorandi di Ratzinger. Egli aveva espresso perplessità sul fatto che si potesse parlare di tre Persone riferendosi alla Trinità, e aveva suggerito invece di descriverle come «modi distinti di sussistenza». Ratzinger fondamentalmente non lo contraddisse, ma si limitò a constatare: «Si può pregare solo una Persona, ma non un modo distinto di sussistenza». Ciò che caratterizzava Ratzinger per Zöhrer era «la coesistenza dell’ampiezza dello sguardo e della chiarezza sul problema, associate alla sua modestia e capacità di valorizzare le persone».
A tale proposito, Christoph Ohly, rettore dell’Università di Teologia Cattolica di Colonia, ha parlato di una “reciprocità sinfonica” e ha ricordato l’amore di Ratzinger per Mozart. Per lui personalmente, ha raccontato Ohly, l’incontro con Ratzinger è stato, per così dire, un “marchio” sulla propria vocazione. Lo incontrò per la prima volta nel 1985, alla liturgia del Venerdì Santo nel Campo Santo Teutonico. Ciò che lo colpì immediatamente fu l’Ars celebrandi di Ratzinger. Riusciva a «valorizzare pienamente ciò che deve trasparire».
Terzo a intervenire sul palco,
don Paolo Sottopietra, Superiore Generale della Fraternità sacerdotale dei missionari di San Carlo Borromeo, ha raccontato ai presenti le sue esperienze con il cardinale Ratzinger / papa Benedetto XVI, che ha conosciuto come una persona particolarmente sensibile. Durante una visita alla casa della San Carlo negli anni Ottanta, per esempio, Ratzinger si girò un’ultima volta prima di uscire, entrò in cucina e ringraziò il cuoco per il buon cibo. Questa empatia con le persone ha plasmato anche il suo pensiero: «Ha fatto sue le domande degli altri.
Si identificava con l’inquietudine dell’uomo contemporaneo». Più tardi, quando era già Papa, gli fu chiesto un consiglio su cosa andasse particolarmente privilegiato nella formazione dei candidati al sacerdozio; Benedetto XVI aveva risposto: «Deve avere un’apertura alla situazione del pensiero attuale e rispondere alle situazioni spesso disperate dell’uomo contemporaneo». Per Sottopietra, il Papa emerito era una persona «profondamente convinta della propria identità,
la testimoniava semplicemente con la propria vita e la proponeva».
La conclusione del Rhein-Meeting, domenica mattina, è stata interamente caratterizzata dalla testimonianza di tale identità concretamente vissuta. Elena Mazzola, presidente dell’ong “Emmaus” di Kharkiv, che si occupa di giovani cresciuti in orfanotrofio, ha raccontato della sua faticosa fuga dall’Ucraina con ragazze e giovani donne con disabilità fisiche e mentali. Ci sono voluti diversi giorni di viaggio per arrivare al sicuro in Italia da Kharkiv, passando per Leopoli. Elena Mazzola ha descritto efficacemente la devastazione che la guerra causa nell’anima delle persone, e che sta profondamente segnando gli ucraini. Eppure, anche in questo conflitto, la speranza si manifesta attraverso episodi apparentemente insignificanti.
Poi ha raccontato la storia di Tanja, che da bambina ha dovuto assistere prima alla morte del padre e poi all’uccisione della madre da parte del suo nuovo compagno. In seguito ha trovato rifugio da Emmaus ed è fuggita in Italia con la Mazzola.
Una volta in cui russi e ucraini dovevano condividere lo stesso palco in un evento in Italia, questi ultimi hanno dichiarato di non poterlo sopportare: «Al momento possiamo solo odiare. È tutto così ingiusto. Ci stanno uccidendo e nessuno in Russia fa niente per impedirlo», dicevano gli amici ucraini. Mazzola ha raccontato di aver risposto loro: «L’odio fa male a voi per primi, e voi lo trasmettete ai vostri figli». Ma loro hanno risposto: «I nostri figli odiano già». Allora è intervenuta Tanja: «Da quando sono in Emmaus, ho perdonato l’uomo che ha ucciso mia madre».
Non ne avevano mai parlato con Tanja, ha sottolineato Mazzola. «Lei stessa ha fatto l’esperienza di uno sguardo amorevole e ha capito che Cristo è presente in questa comunità. Non serviva essere super-intelligente. Ha capito che, per essere felici, bisogna perdonare.»
Ma anche la stessa Mazzola non ha una risposta semplice alla drammatica situazione della guerra. Ha messo in guardia dall’essere “ingenui”. «La situazione è peggiore di quanto pensiamo. Al momento, sembra che non ci siano possibilità di colloqui di pace.» Tuttavia, ha proseguito, ci sono diversi livelli: «Chi deve fare diplomazia la faccia. Chi deve difendersi lo faccia. Ma noi dobbiamo creare uno spazio di verità e amore». La testimonianza di Tanja «non è solo una bella storia, proprio come la nascita di Gesù Cristo nell’Impero romano non fu una bella storia. Questa è la realtà che salva il mondo».