Ho letto il libro di Antonella Lattanzi, Cose che non si raccontano (Einaudi), perché mi era capitata sotto gli occhi una recensione di Vanity Fair, che mi aveva fatta saltare sulla sedia. In soldoni diceva che il libro racconta la storia dell’autrice, che abortisce due volte, a 18 e 20 anni, perché vuole avere tempo per la sua carriera di scrittrice, e che poi avvicinandosi ai 40 decide che è il momento di provare ad avere figli; non riesce naturalmente, ed entra nel tunnel della fecondazione artificiale, al momento senza successo.
Soprattutto la cosa che mi aveva fatto saltare sulla sedia, come dicevo, era che la morale che ne traeva il settimanale è la seguente perla di saggezza: la colpa è di chi non le ha detto di congelare gli ovuli quando era il momento.
A dire il vero non mi sembra che l’autrice tragga questa stessa conclusione. È un pensiero che formula, sì, ma non mi pare che per lei sia l’epilogo, né il cuore della storia. Più che altro il suo mantra è: non ho voluto figli prima perché per me è importante scrivere. È una affermazione che ripete continuamente, che presenta come un dato di fatto, una cosa ovvia, tipo “per fare ciclismo hai bisogno di una bicicletta”.
E allora ho deciso di scrivere qualche riga, nonostante sia stata combattuta. Davanti al dolore di una donna che fa morire dei figli (lo dice lei, che sono bambini, quelli abortiti volontariamente, tre, più due persi: sono bambini, non grumi di cellule) e poi non riesce ad averne, forse la cosa migliore da fare sarebbe tacere. Più rispettosa del dolore e dell’intimità. Però è lei che ci racconta la sua storia, che ci fa entrare dentro l’intimo più intimo della sua vita, e pur cercando di non giudicare la persona, penso che sia importante demolire il dogma che i figli ti mettano davanti a un bivio. Lo voglio fare soprattutto per le mie figlie femmine. Che non crescano con l’idea che automaticamente avere dei figli significhi perdere tutto, o gran parte del resto, che la maternità tolga opportunità. Sottolineo automaticamente. Si può essere madri in miliardi di modi diversi. Ed effettivamente ogni essere umano ha una madre, e ogni madre è unica. Anche la stessa madre sarà diversa per ciascuno dei suoi figli, nelle diverse fasi della sua vita, e misurandosi con le diverse storie dei figli (caratteri, esigenze, necessità) e con le circostanze della sua vita.
Io sarei istintivamente una mamma presente sempre, troppo, ma non ho potuto fare a meno di lavorare e forse, chissà, questo è un bene per i miei figli (li avrei allattati fino alla maturità). Conosco ottime madri che non lavorano e pessime madri che stanno sempre a casa (per quello che possa valere il giudizio degli altri su una cosa così intima e privata come la maternità). Conosco madri meravigliose e attentissime che fanno i primari, i dirigenti di azienda, le commesse. Conosco madri casalinghe egoiste e ripiegate su sé stesse.
Vorrei sapere di dove ha tratto questa certezza – con dei figli non puoi fare la scrittrice, non se li fai da giovane – la Lattanzi. Conosco medici che si sono laureati col quarto figlio in braccio a battere la tesi, e poi ne hanno fatti altri. La prima ballerina dell’Opera di Roma di notte allatta il quarto figlio, di giorno incanta sul palco con una danza perfetta, e ha interrotto quattro volte la sua carriera per le gravidanze, tornando ogni volta in sala prove e poi sul palco più brava di prima. La signora Lejeune ha nove figli e dirige la General Electric. Docenti universitarie che hanno cresciuto cinque o sei ragazzi. Ho amiche con undici figli che sembrano volteggiare tra gli impegni della vita, e persone sempre stanche, magari con un figlio solo, o senza.
La mia esperienza – di figli ne ho ricevuti quattro (perché i figli sono un regalo) – è che quando non ne avevo faticavo a star dietro al lavoro, e pensavo che se avessi avuto un pesce rosso avrei avuto problemi a trovare il tempo per cambiargli l’acqua. Sette anni dopo allattavo due gemelle, la terza e la quarta, e sorridevo delle mie paure di allora.
I figli non ti tolgono niente. Non ti tolgono creatività, di certo, non energie, intelligenza. Certo, ti costringono a riorganizzare il tempo, soprattutto nei primissimi mesi, ma il guadagno è immenso, in tutte le altre voci di bilancio, non solo la felicità, la gioia, la bellezza, l’amore, ma anche nella capacità di gestire le cose, di capire le persone e molto altro. La maternità è un master, è il titolo di un libro fortunato. Io direi forse piuttosto che la maternità può essere un master. Cioè può essere una grande occasione di crescita. Può anche lasciarci egoiste e stupide come prima, non voglio certo alimentare la mitologia della santità materna. Poi i figli possono anche essere la proiezione del nostro ego, possiamo amarli poco, male, possiamo amarli in modo egoistico, solo per averne conferme. Conosco madri che si fanno accudire dai figli, che non li fanno allontanare, perché non sono mai cresciute, e madri con ansia da prestazione, che traggono vita dai successi dei figli. Chissà che casino di madre sono io. Però più o meno ce la mettiamo tutta, tutti, madri e padri. Quando non amiamo è perché non ne siamo capaci. I cattivi genitori esistono, ma sono appunto cattivi, cioè, etimologicamente, captivi, ossia schiavi dei loro limiti. Quello di cui sono certa, assolutamente, è che non c’è niente che non si possa fare solo perché si è accolto un figlio (o più). Neppure l’astronauta, ci ha dimostrato Samantha.
Allora, valeva la pena impedire di vivere a tre bambini (senza contare quelli fecondati, la cui vita si è arrestata in laboratorio)? Dico tre perché, non l’ho raccontato, l’autrice rimane incinta di tre gemelle, e le consigliano la “riduzione fetale”. Cioè una bambina viene uccisa. Il racconto è straziante, e devo dire che la Lattanzi non se la racconta edulcorata la storia. Racconta tutta la verità, senza pietà per sé stessa: “puntano l’ago nel punto in cui – il punto in cui dovrei proteggerla – c’è lei. E invece le sto dicendo: muori…. Il medico spinge, e spinge, e affonda l’ago nella mia pancia. … sempre più forte, e tutti guardano il monitor, e anche io li vedo: i tre cuori che resistono. Non muore. Non riesce a morire, penso. Smetti di guardare, penso. Non smetto. Ci sono queste linee così belle del grafico, questo battito stupendo, queste belle linee del cuore che battono tutte e tre. E poi, di colpo. Una linea si fa dritta… un cuore non c’è più e io scoppio a piangere.” Il giorno dopo, all’ecografia di controllo per monitorare lo stato di salute delle altre due, si scopre che sono morte anche loro, con la sorellina.
Nessuna pietà per sé stessa, dicevo. Io invece provo tenerezza per lei (anche se forse, se leggesse questo pezzo, non vorrebbe la mia tenerezza), perché è stata ingannata. Ingannata terribilmente. Fregata alla grande. Come tantissime donne della nostra generazione, e delle successive, in tutto l’Occidente ma soprattutto in Italia, la capofila delle culle vuote. Ci hanno rubato i nostri figli convincendoci che per essere felici e realizzate avremmo dovuto ucciderli.
Conosco tre mamme di tre gemelli. Le loro vite non sono finite con la nascita dei bambini. Una la conosco un po’ meglio, aveva già due figli, e hanno cercato di convincerla a eliminare uno dei tre che aveva in grembo. Non si è lasciata ingannare, e la sua vita non si è fermata, anzi, e neppure la sua carriera. Spero che le mie figlie, le nostre figlie, non si facciano fregare così, e per questo ho scritto questo pezzo odioso. Non vuole essere un giudizio su una donna, ma un piccolo contributo a vedere i figli come un regalo, sempre, sempre, un regalo enorme, e mai come una fregatura.
Fonte: CostanzaMirianoblog.com