Guanda ripubblica il saggio “Sulla violenza”, in cui la filosofa esamina i totalitarismi: quando il potere non è condiviso si apre la strada ai soprusi.
Potere e violenza, secondo Hannah Arendt, non si equivalgono. Il nucleo di questo saggio sta nel compito di ridefinire entrambi, rompendo con la tradizione del pensiero politico e anche con il senso comune. «Potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire, ma di agire in concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene al gruppo e continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito». Invece «la violenza (…) si distingue per il suo carattere strumentale. Fenomenologicamente, è vicina alla forza individuale, dato che gli strumenti di violenza, come tutti gli altri strumenti, sono creati e usati allo scopo di moltiplicare la forza naturale finché, nell’ultimo stadio del loro sviluppo, possono prendere il suo posto. Forse è superfluo aggiungere che queste distinzioni (…) molto raramente corrispondono a compartimenti stagni nel mondo reale».
È importante ribadire che la mescolanza di violenza e potere avviene in tutte le forme di governo dove una parte significativa di governati si sottomette a chi detiene il comando e i mezzi della violenza. Il grado e le modalità di rinunciare all’esercizio della libertà non sono naturalmente uguali in un regime democratico e in uno autoritario. Gli esseri umani smettono di agire “in concerto” per consenso, comodità, indifferenza, pavidità e nuda paura per l’incolumità fisica o la vita stessa. Però solo i totalitarismi, secondo Arendt, sono in grado di sopravvivere a lungo senza alcun sostegno poiché, attraverso il terrore sistematico e la sorveglianza capillare, distruggono i legami necessari all’azione in comune.
La passività con cui l’enorme maggioranza dei cittadini russi ha reagito all’”Operazione speciale”, potrebbe essere interpretata, secondo la lezione arendtiana, come un combinarsi dell’adesione all’ideologia imperialista e un’abitudine alla sudditanza di origine totalitaria. Consolandosi della propria impotenza con la potenza incarnata dal capo, prendendo per ineluttabile la sua facoltà di stritolare ogni dissenso, quel sentimento collettivo di impotenza permette al massimo l’azione individuale della fuga. Il funzionamento di una democrazia sul “quieto vivere”, invece, deve molto al fatto che la maggioranza si sente protetta dalla violenza di Stato anziché ritenersene un potenziale bersaglio. I “bravi cittadini” si definiscono tali proprio perché non corrono il rischio di essere malmenati come dei dimostranti, tossici o facinorosi, o fermati per disturbo della quiete pubblica e, soprattutto, perché hanno le carte in regola per non finire mai reclusi in un Centro di identificazione e di espulsione, come i non-cittadini “illegali”. Questo, però, non toglie che talvolta la distinzione tra potere e violenza si presenti netta. «… Come, per esempio, nel caso di invasione e occupazione straniera.
Abbiamo visto che l’equazione abituale fra violenza e potere si basa sul fatto che il governo è inteso come dominazione dell’uomo sull’uomo per mezzo della violenza. Se un conquistatore straniero si trova di fronte un governo impotente o una nazione non abituata all’esercizio del potere politico, è facile che riesca a mettere in pratica questo genere di dominazione. In tutti gli altri casi le difficoltà sono davvero grandi, e l’occupante straniero dovrà cercare immediatamente di costituire un governo fantoccio, cioè di trovare in loco una base di potere a sostegno della sua dominazione. Lo scontro frontale fra i carri armati russi e la resistenza del tutto non violenta del popolo cecoslovacco è un caso da manuale di un confronto fra la violenza e il potere allo stato puro. Ma in un caso del genere la dominazione, anche se difficile da ottenere, non risulta impossibile.
La violenza, non dobbiamo dimenticarlo, non dipende dai numeri o dalle opinioni, ma dagli strumenti, e gli strumenti della violenza, come ho già detto, come tutti gli altri strumenti accresco no e moltiplicano la forza umana. Coloro che si oppongono alla violenza col semplice potere scopriranno ben presto di non avere a che fare con degli uomini ma con dei prodotti degli uomini, la cui inumanità ed efficacia distruttiva aumentano in proporzione con la distanza che separa i contendenti. La violenza può sempre distruggere il potere; dalla canna del fucile nasce l’ordine più efficace, che ha come risultato l’obbedienza più immediata e perfetta. Quello che non può mai uscire dalla canna di un fucile è il potere. In uno scontro frontale fra violenza e potere, il risultato rimane difficilmente in dubbio.
Se il dramma potente e ben riuscito della resistenza non violenta di Gandhi si fosse scontrato con un nemico diverso – la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, o magari il Giappone anteguerra, invece che con l’Inghilterra – il risultato non sarebbe stato la decolonizzazione, ma un massacro e la sottomissione. (…) Il dominio per mezzo della pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere; e proprio il restringimento del potere del governo russo, internamente ed esternamente, che diventa manifesto nella sua “soluzione” del problema cecoslovacco, proprio come era il restringimento del potere degli imperialisti europei che diventava manifesto nell’alternativa fra la decolonizzazione e il massacro. Sostituendo la violenza al potere si può ottenere la vittoria, ma il prezzo è molto alto; in quanto viene pagato non solo dal vinto, ma anche dal vincitore in termini di potere proprio».
Il potere allo stato puro, come lo chiama Arendt, lo abbiamo visto nell’organizzarsi immediato della resistenza civile e militare ucraina, premessa del fallimento di una presa di potere tramite un governo fantoccio e tutto quello che sinora ne è conseguito. Lo incontriamo in Iran dove una rivoluzione pacifica guidata dalle donne e dai giovani cerca da mesi, nonostante la repressione sempre più feroce, di far cadere una dittatura non solo teocratica ma ispirata a modelli totalitari.
Però nell’ultimo decennio abbiamo anche assistito a tante sollevazioni inesorabilmente schiacciate dalla violenza. In Egitto, in Siria, in Libia, nello Yemen, a Hong Kong, in Bielorussia, gli esiti sono stati o la sottomissione o la guerra civile diventata occasione per innestare una guerra per procura. Invece la Cina, benché sotto la guida autocratica di Xi Jinping, ha reagito alle molto più limitate proteste contro le misure “zero-Covid” togliendo le restrizioni, evidentemente preoccupata di perdere la base di un potere che l’ha resa l’unica vera antagonista degli Usa. Soft power, hard power. È proprio quello “duro” a rivelarsi fragile.
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