il giorno di pasquetta mi chiedevo se la resurrezione celebrata il giorno prima riguardasse anche me, deluso da un bel maglione ricevuto a Natale che mostrava già i primi pallini. Tutte le cose umane, prima o poi, vanno «a pallini». Eppure anche se nulla riesce a soddisfarci, continuiamo a cercare, ascoltando l’infinito richiamo che ci mette in moto: il desiderio.
Il proprio del desiderio è infatti non aver nulla di proprio, perché vuole l’infinito e mai sarà colmato da un qualche finito o dalla somma di tantissimi finiti: l’infinito vuole l’infinito. Il desiderio, mancanza che rende inquieti, è però ciò che rende inesauribile ogni aspetto della realtà, ma purtroppo una cultura che ripete «la vita fa schifo, non ci pensare, divertititi e consuma» (a immagini del creato in rovina segue la pubblicità di un prodotto superfluo, a quelle di povertà seguono piatti stellati a costi stellari) anestetizza il desiderio e quindi la gioia.
Il calo del desiderio erotico nella nostra società ne è un esempio: se l’altro esiste come oggetto finito di consumo e non soggetto d’amore infinito, il cuore si pietrifica. Il prezzo dell’erosione del desiderio è altissimo, perché solo la sua insopprimibile pretesa di infinito rende la vita una gioia, spingendoci a: scoprire e creare il nuovo, uscire da sé per amare, mettersi in relazione con gli altri e il mondo. Tutto il contrario dell’illusione egocentrica che «finisce» tutto e tutti, e poi «sfinisce» noi. Come si fa allora a risorgere anche con il corpo, come si narra di Cristo?
Risvegliando il desiderio attraverso la bellezza. Desiderio e bellezza appartengono allo stesso ordine di realtà, che precede ragionamenti e quindi possibili inganni. La bellezza è semplice: immerge il corpo in un mondo nuovo, a cui sentiamo di voler appartenere e collaborare.
E così quel lunedì di Pasqua, camminando nel bosco, sono arrivato in una valle incastonata tra i monti a circa duemila metri, mi sono coricato su un prato lasciato da poco dalla neve che, rimasta solo negli anfratti e sulle cime, aveva forgiato attorno a noi una corona di ghiaccio. I crochi, fiori delle altitudini, aprivano infinite iridi bianche e viola nell’erba muta e ingrigita dal peso dei mesi invernali: corolle più modeste di quelle delle stesse fioriture in maggio e giugno, ma non meno belle in quanto sentinelle intrepide al primo risveglio. Gli alberi del bosco, pini, abeti, larici, erano immersi in un silenzio diverso da quello invernale, un silenzio simile alla sospensione che precede le prime battute di un concerto, un silenzio pieno di attesa e fermento. La neve superstite era rimasta aggrappata ai tratti in ombra del sentiero in lastre di ghiaccio che, al viandante distratto, paiono innocui specchi d’acqua.
Questa bellezza, propensione delle cose tra loro e dialogo delle cose con noi, traccia la frontiera su un mondo fatto solo di verità e in cui, infatti, gli uomini immergono i loro corpi, camminando, tenendosi per mano e dialogando tra loro nella pausa festiva, spezzando così l’incantesimo mentale che a questa bellezza gratuita crede meno che alla bruttezza a pagamento. Alla verità preferiamo la viralità, eppure la prima è un dono, la seconda sottomissione.
La verità è semplice come il vento che si contendeva il mio viso con il sole: un equilibrio di forze che, su quel prato, mi ha donato un sonno breve ma perfetto, capace di ripulire la mia mente dalla tristezza e dalla rabbia di un corpo non risorto. Quella bellezza, a cui il mio corpo si disponeva invece come l’astuccio più adatto, mi ha ricordato che la verità non è mai dove il corpo viene torturato o manipolato, la verità è solo dove il corpo risorge, dove la vita lo chiama alla vita, gratis. La verità è nella lingua di bosco che si protende sulla distesa di neve fin dove l’altitudine decide che le radici devono fermarsi, la verità è la neve che filtra nello specchio puro di un lago che trema al vento tra le pendici… perché la verità è la relazione indistruttibile e feconda tra le cose, il bene-bello che tutte le abita e collega, e che solo noi umani siamo capaci di vedere e custodire, ma anche di ignorare e ostacolare, creando contro-verità affette dalla stessa deficienza: non uniscono le cose e le persone, le sottomettono, in qualsiasi modo si dia il loro potere (fisico, politico, ideologico, economico…).
La vita si mostra con i legami, la morte con le catene. Quei crochi sono la verità, non doping emotivo contro la durezza del vivere, ma dimostrazione che una vita custodita, compiuta, collegata è possibile. E infatti al richiamo dei crochi risponde in noi il desiderio di un mondo da fare al pari di quello che in loro è già ri-sorto, cioè sorto (di) nuovo.
Come la luce chiede alle piante la fotosintesi per esser trasformata in ossigeno, anche la bellezza chiede al nostro desiderio di esser trasformata in azione. La bellezza rende con-tenti (tenuti insieme) e incoraggia a pro-creare, come segnalano, lungo il cammino, le opere di ignoti a cui siamo grati per il loro lavoro anche se non sappiamo chi sono: i fienili ben incastonati nel paesaggio, i crocifissi intagliati e piantati come alberi tra gli alberi, le raccolte d’acqua fresca scavate nei tronchi, la chiesetta rustica in cui tutti, anche non credenti, entrano in cerca di ciò che altri devono aver ricevuto per decidere di fare una casa più bella, lì, nel nulla.
Questa bellezza avviene nel corpo che, in relazione viva con le cose e le persone, si scopre destinatario di doni che non deve accaparrarsi perché sono già suoi, diventa corpo del mondo e corpo sociale, al contrario del corpo che si sente vuoto perché privo di cose che in realtà non gli servono e alle quali, nel tentativo di possederle, si sottomette. Il corpo è desiderio incarnato a cui le cose chiedono di affidarsi, con-tenute e non de-tenute, libere non prigioniere, per ri-crearsi nuove, come quei crochi che, finché fioriranno, non smetteranno di dire la verità: se noi, brevi vite eterne, siamo ri-sorti, tu che aspetti? Ho aperto gli occhi, ero di nuovo vivo.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it