Ho cercato l’amore per tanto tempo senza trovarlo se non nella mia testa. Poi lui mi ha trovato e ho capito che ero io a nascondermi. Inseguivo l’idea dell’amore, perché avevo paura di amare, ma amare è un verbo non un sostantivo, un’azione che richiede carne e spirito, un rischioso infinito «crescendo» dell’essere e non un comodo «stato» della mente, come chi si compiace di dirsi «artista» in un campo, ma non ha affrontato l’impegno quotidiano in quell’arte per almeno dieci anni.
Di recente un amico ha celebrato i 50 anni della moglie, confezionando 50 regali disseminati lungo la giornata, in un crescendo che partiva dalla gomma da masticare alla cannella, da lei preferita quando si conobbero giovanissimi, per arrivare a un gioiello. Amare è un’arte che s’impara e affina, non si improvvisa, è un lavoro a giornata, senza pensione.
Non è l’amore a far felici, ma amare, come dice la scrittrice Bell Hooks nel bel libro «Tutto sull’amore»: «Chi vuole credere che in amore non ci sia pienezza, che l’amore vero non esista, si aggrappa a queste sue convinzioni perché è più facile affrontare questa sofferenza del fatto che l’amore fa parte della vita, ma è assente dalla sua».
L’amore vero esiste: solo per chi ne fa un’arte di vivere.
Ma com’è possibile che nella società della formazione permanente proprio in amore ci si affida all’improvvisazione e alla spontaneità? L’amore è un lavoro a cui siamo tutti chiamati: il (capo)lavoro. Ma che cosa c’è da imparare?
L’antico mito di Filemone e Bauci, raccontato dal poeta latino Ovidio nelle Metamorfosi, narra della visita che gli dei Zeus ed Ermes fecero in Frigia, antica regione dell’Anatolia, fingendosi forestieri in cerca di ospitalità. Visitarono migliaia di case ma nessuno li accolse tranne due poveri sposi, che imbandirono la loro modesta tavola con tutto ciò che avevano. Gli dei, grati, si rivelarono e chiesero loro che cosa volessero in cambio di quella generosa ospitalità. La coppia rispose: «Chiediamo d’essere sacerdoti e di custodire il vostro tempio; e poiché in dolce armonia abbiamo trascorso i nostri anni, vorremmo andarcene nello stesso istante, ch’io mai non veda la tomba di mia moglie e mai lei debba seppellirmi». Zeus trasformò quindi la loro capanna in un tempio di cui diventarono custodi.
Una relazione vera e aperta al mondo, anche se sembra «ordinaria» e piena di limiti, è in realtà un luogo sacro che attira nel suo cono di luce. Così Filemone e Bauci vissero il loro amore ancora a lungo accogliendo coloro che si recavano al tempio, e nel loro ultimo giorno, mentre si scambiavano a vicenda lo stesso ultimo saluto: «Stai bene, amore mio», gli dei trasformarono l’uno in una quercia e l’altra in un tiglio, tra loro vicini e protetti da un recinto.
La metamorfosi in alberi diversi narra che amare è riconoscersi nella differenza, ognuno è visto per quello che è e può non vergognarsene, anzi riceve dall’altro la grazia di poter essere così com’è, e questo gli permette di diventare ciò che ancora non è.
Amare allora non è un lavoro dettato dalla morale, dalla spontaneità, dalla convenienza, ma dal fatto che è l’azione migliore per crescere e compiersi: l’amore non è il fine ma il metodo di una vita riuscita, nata del tutto. Altre parole di Hooks calzano a proposito: «Nel vero amore ci si sente in contatto con il nucleo identitario dell’altro. Imbarcarsi in una relazione del genere spaventa, proprio perché si sente che non ci si può nascondere. Siamo conosciuti. Tutta l’estasi che proviamo emerge poiché questo amore ci nutre e ci sfida a crescere e a trasformarci».
In quanto azione amare è trasformazione e individuazione: (ri-)conosco me nella misura in cui sono (ri-)conosciuto dall’altro, smetto di nascondermi innanzitutto a me stesso, superando la vergogna del mio essere finito e evitando l’illusione di poter fare a meno del corpo, luogo unico della fatica e della gioia d’amore. Amare vince la morte perché ci permette di ricevere in dono la nostra mortalità, tutto ciò in cui «mi sento morire», per scoprire che non muoio ma nasco.
Lo sto imparando da e con la mia amata, io che volevo essere perfetto imparo a non essere mai abbastanza, io che volevo tutto sotto mano imparo a ricevermi dalle mani di un altro. Smetto di nascondermi, per fare luce su me stesso alla luce di un altro. Essere amati fa venire alla luce, amare dà alla luce. Quando Ovidio descrive Filemone e Bauci dice che nella loro capanna: «Non ha senso chiedersi chi è il padrone o il servitore: la casa è tutta lì, loro due: comandano e servono allo stesso modo».
Nell’arte di amare non si sa chi comanda e chi serve, come in un abbraccio non si distingue chi dà e chi riceve, perché il limite delle braccia diventa circolazione di bene senza fine in cui si è «presi», «appresi» e «compresi». Amare è (ri-)generare l’altro, farlo essere nel (voler) bene ma, come suggeriva il poeta Rilke, il 29 aprile del 1904, al giovane fratello della moglie, proprio questo è il (capo)lavoro: «Le persone giovani possono innalzarsi lentamente verso questa felicità, e prepararvisi. Non devono dimenticare che in amore sono degli esordienti, dei dilettanti, degli apprendisti; devono imparare l’amore e, come per ogni studio, ci vuole calma, pazienza e concentrazione. Prendere l’amore sul serio, soffrirlo, impararlo come un lavoro: ecco ciò che è necessario ai giovani. La gente ha frainteso il posto dell’amore nella vita: ne ha fatto un gioco e un divertimento, perché scorgono nel gioco e nel divertimento una felicità maggiore che nel lavoro; ma non esiste felicità più grande del lavoro, e l’amore, per il fatto stesso di essere l’estrema felicità, non può essere altro che lavoro» (Lettera a Friedrich Westhoff).
Aggiungerei che nell’arte di amare, così come in ogni arte, per inventare il nuovo bisogna rimanere esordienti, dilettanti, apprendisti, perché se amare diventa abitudine, mestiere, ripetizione, è finita. Come per Filemone e Bauci ogni giorno potrebbe anche essere l’ultimo, ma anche in questo caso estremo si farebbe insieme pure «la morte», e così la si accoglierebbe, perché la relazione dà la forza e il coraggio di accogliere tutto, persino quegli «stranieri» — qualsiasi nome abbiano: figli, parenti, amici, imprevisti — che rivelano se la capanna è un tempio e se questa nostra vita breve è già eterna.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it