Il maestro elementare Amedeo Dimaggio, colto da infarto qualche giorno fa, diventò poeta per inquietudine e riconoscenza. La prima veniva dal fatto che la vita non basta mai, la seconda dal fatto che la vita basta e avanza. Le due cose non si conciliano: la vita semplice non lo è mai stata, e allora Dimaggio provò a essere semplice lui. Così prese a fissare l’attenzione su ciò che ci sfugge proprio quando e perché ci fa paura, tanto da allontanarlo prima di farne esperienza: la vita. Sopravvissuto a infanzia e adolescenza ebbe materia a sufficienza per scrivere. Per farlo basta aver visto un barlume del miracolo del mondo e delle contraddizioni dell’homo sapiens, capace di far quadri e missili. La sua ispirazione da estremo principiante, ma mai di seconda mano, gli servì ad ampliare un’unica poesia alla maniera in cui Vermeer dipinse, in forme diverse, sempre lo stesso quadro. Da come si pigmentano le ali delle farfalle vide che la bellezza è il mezzo e il fine dell’evoluzione, e dal modo in cui ci si innamora seppe che l’etica (e quindi la politica) è conseguenza dell’estetica: si costruisce il mondo a immagine di ciò che si ama. Nella sua prima raccolta, intitolata “Soprannomi”, scriveva: “Per scoprirti, vita, ti diamo soprannomi,/ come fanno gli amanti, per strapparsi all’anonimato”. Purtroppo Dimaggio è stato trovato morto, il volto sul petto, la penna in mano, un quaderno aperto e l’ultima parola appena scritta. Aveva 45 anni e un cuore fragile. Ma chi era?
L’amore per la verità lo aveva imparato dal padre, falegname, che gli ripeteva sempre che un albero non mente mai, ha dentro tutta la vita che ha potuto, e per lavorarlo basta seguirne con umiltà le venature, i nodi e le stagioni. In una delle sue poesie della raccolta già citata infatti scrisse “Della materia dell’essere/ che i Greci soprannominarono legno/ mio padre curò molte cicatrici”, e da poeta provava a far lo stesso con la penna (scriveva solo a mano): “Il giorno in cui una lingua raggiunge la capacità di curare la disperazione e di infondere la gioia, quel giorno il popolo che la usa ha raggiunto la perfezione”, ha scritto in una nota autobiografica di ringraziamenti.
Da sua madre aveva imparato che l’immaginazione è la strada maestra dell’intelligenza. Da lei ricevette in eredità due doni: malinconia e visione. La prima non era per lui un sentimento triste, ma la spina dell’infinito nel cuore dell’uomo, il segno di una rosa da cercare poco sopra lo stelo, una “mancanza promettente” la definiva. La seconda era proprio nella voce materna che, attraverso fiabe, miti, racconti antichi e nuovi, gli aveva fatto “sentire” che la realtà è la somma di ciò che si vede e di ciò che si sente, che emozione e pensiero non devono mai essere separati se non si vuole fare a pezzi prima la realtà e poi gli altri. Il mondo per Dimaggio era un nodo di relazioni e di paradossi, come nei noti versi dedicati alla moglie: “Ti ho dato ciò che non avevo: il futuro./ Mi hai dato ciò che non avevo: il presente./ Così abbiamo ottenuto un passato”, e ancora: “Non Ulisse, Penelope viaggiò:/ più della terraferma è arduo trovare un cuore d’uomo”.
La sua vita era ordinaria, maestro elementare per vocazione, definiva i bambini i suoi maestri grazie alle loro vite “sempre esordienti”. Non ebbe mai una macchina perché non voleva “esser di fretta”, condizione che riteneva la causa della mancanza d’amore: “Paziente e attento sono soprannomi dell’amante/ per impazienza uscimmo dall’Eden/ per disattenzione non ci torneremo”. Guardava la televisione a volume spento perché convinto che la verità fosse tutta nella parola del corpo, mentre quella della bocca può mentire. Gli bastava infatti leggere i volti e i gesti per capire chi dicesse la verità e chi no: “Ascolto i volti perché non sanno tacere/ ciò che nascondono”.
A chi gli chiedeva perché il Padre nostro fosse la sua poesia preferita rispondeva: “Perché tutte le volte che la recito non riesco ad andare oltre le prime due parole, e questo deve fare la poesia: trovare soprannomi inesauribili, sorprenderci all’infinito”. Stava lavorando alla seconda opera, contenuta proprio in quel quaderno su cui era chino quando il cuore gli si è fermato, un’opera che le forze politiche hanno deciso di pubblicare in un milione di copie a spese dello Stato, perché l’arco parlamentare è unanimemente convinto che la poesia serva a guarire il cuore dal disamore e la mente dalla menzogna.
Il voluminoso quaderno contiene nella prima pagina il titolo della raccolta: “Il verso che fa l’uomo”, e nell’ultima, anziché FINE, la parola INIZIO: ma non è questa la sorpresa. Infatti i fogli sono bianchi (c’è solo il numero della pagina scritto a mano), tranne un unico verso riportato in fondo all’ultima pagina: “Ti amo anche io”. Tutta la raccolta è una risposta: a chi? E nel titolo, “Il verso che fa l’uomo”, il soggetto della frase è sia l’uomo (è l’uomo a fare il verso del “ti amo” come un cane fa “bau”) sia il verso stesso (è quel verso, “ti amo”, che rende l’uomo un uomo). Chiediamo sempre ai bambini che cominciano a sillabare: “Come fa…?” aggiungendo elenchi di animali. Dimaggio, come un bambino che inizia a parlare, si è chiesto: “Come fa l’uomo?” e “Come si fa un uomo?”.
PS. Non cercate Amedeo Dimaggio: l’ho inventato, anzi, è nato il giorno del mio 46° compleanno, forse per suggerirmi come non perder tempo nei prossimi 45 anni.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Profduepuntozero.it