Due recenti notizie spaziali.
La prima: sappiamo che quando un certo tipo di stelle invecchia si espande ma, per la prima volta, abbiamo acquisito immagini di un pianeta che, a 13mila anni luce da noi, precipita dentro una di queste stelle con uno sbuffo di polvere.
La seconda: la probabile origine dei quasar (QUAsi stellAR: sorgente di luce quasi stellare). Scoperti sessant’anni fa, sono i più potenti oggetti celesti noti: brillano come un miliardo di miliardi di stelle ma in uno spazio ristretto come potrebbe essere il nostro sistema solare. Lo studio di 48 galassie in cui sono presenti hanno svelato che i quasar sono l’effetto dello scontro tra due galassie. Gli astrofisici ci raccontano il passato, scoprendo le costanti che regolano l’universo allo stesso modo in cui alcuni uccelli migrano e i mandorli fioriscono: la scoperta della nostra origine è ipotesi sul nostro futuro. Infatti queste due ricerche, anche se del tutto indipendentemente, ci annunciano, proprio per la regolarità del cosmo, che il mondo finirà per uno di questi due motivi: o il Sole, che è una di quelle stelle che invecchiando si espande, ci inghiottirà o la nostra galassia si scontrerà con quella di Andromeda.
Quando? In entrambi i casi i due eventi sono ipotizzati tra 5 miliardi di anni: la fine è sicura ed ha una scadenza indicativa, come i cibi.
Chi se ne importa, direte voi, l’universo di anni ne ha 14 miliardi e noi solo 2 milioni: c’è ancora «tutto il tempo» prima della «fine del mondo»! Siamo sicuri?
La tanto abusata frase di Saint-Exupéry sul fatto che si vede bene solo con il cuore, coglie un punto tutt’altro che sentimentale, confermato dalla fisica quantistica: noi vediamo ciò che siamo. Scopriamo fuori di noi ciò che ci portiamo dentro: in negativo quando non lo vogliamo affrontare, come quando vediamo negli altri i nostri difetti (quanti tirchi, permalosi, invidiosi… lo sono perché lo siamo prima di tutto noi); in positivo quando riconosciamo fuori qualcosa che abbiamo prima accolto dentro di noi (chi è innamorato scopre il cielo, chi è malinconico la Luna). E così quando scopriamo certi fenomeni naturali vediamo noi stessi: la nostra origine è il nostro futuro.
Nei 5 miliardi di anni che restano c’è quindi non solo una scadenza ma un promemoria del desiderio. Lo aveva già intuito Giuseppe Ungaretti, quando, in trincea, durante la prima guerra mondiale, in una notte estiva, scrisse su un pezzetto di carta:
«Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
Perché bramo Dio?»
(Dannazione – 29 giugno 1916).
Sentiva nella carne la «mortalità» di tutto, persino del cielo stellato con la sua illusione d’infinito già segnalata sulle carte dell’anima da Leopardi. Ma l’ultimo verso testimonia, di fronte al “finire” di tutte le cose, che qualcosa in noi si ostina invece a «in-finire»: la parola Dio viene infatti da un’antica radice per «Luce», da cui termini apparentemente lontani come Zeus in greco, dies (giorno) in latino, divino in italiano.
Di fronte al buio che avvolge la nostra origine e la nostra fine, il cuore brama luce.
Ma che cosa dovrei farci di 5 miliardi di anni se a me ne restano poche decine? Farli entrare in quelle decine, rendendole «la fine del mondo». Come? Lo dice bene un racconto dello scrittore russo, naturalizzato francese, Andreï Makine, che ruota attorno a un ricordo d’infanzia nell’asfissiante Russia sovietica. Giocando a nascondino tra le tribune deserte che ospitavano fino a poche ore prima i rappresentanti del partito osannati dalla massa, un bambino trova una donna, sola, che legge la lettera del suo amato, tra le lacrime: «Non era la prima donna ad abbagliarmi con la sua bellezza. Era la prima, però, a rivelarmi che una donna che ama non appartiene al nostro mondo ma ne crea un altro e lì resta, sovrana, inaccessibile alla febbrile rapacità dei giorni che passano… La bellezza umile del volto femminile dalle palpebre abbassate rendeva ridicole le tribune e chi le occupava, e la pretesa degli uomini di ergersi a profeti della Storia. La verità era espressa dal silenzio di quella donna, dalla sua solitudine, dal suo amore così grande che perfino il bambino sconosciuto che scendeva i gradini ne era rimasto abbagliato per sempre».
Quel volto fa capire al bambino che l’eden che il comunismo gli prometteva e inculcava a scuola era una frottola, perché mancava l’essenziale: «Era prevista ogni cosa nella società ideale: il lavoro entusiasta delle masse, i progressi favolosi della scienza e della tecnica, la conquista dello spazio che avrebbe portato l’uomo verso galassie sconosciute, l’abbondanza materiale e i consumi ragionevoli legati al cambiamento radicale della mentalità. Tutto, proprio tutto! Eccetto… Non pensai “l’amore”, semplicemente rividi la giovane donna in mezzo alla grande calma soleggiata delle nevi. Una donna con gli occhi chiusi e il cui volto si protendeva verso colui che amava» (Il libro dei brevi amori eterni).
Quel volto di donna che piangeva l’amato, morto nella guerra voluta da chi occupava poco prima quegli stessi spalti, smascherava il potere con cui l’uomo e gli Stati si illudono di esistere, di essere padroni del tempo, opponendogli l’unico metodo di riuscirci davvero: amare. Infatti chi ama ha «tutto il tempo»: lo riceve (da una carezza, da una cosa bella, da un amico…) e lo dà (in una carezza, facendo una cosa bella, a un amico…). Invece per chi cerca di accaparrarsi il tempo, usando ed esaurendo le cose e gli altri (e fa quindi in vario modo la guerra), il mondo finisce continuamente.
L’amore, come la luce, piega tempo e spazio in una sorta di legge della «relatività esistenziale», che poi è la legge della «relazione universale». Diciamo infatti di una cosa che è la «fine del mondo» sia perché è talmente bella (la bellezza è amore in atto) da crearne uno nuovo, come fa l’amore della donna sulle tribune, sia perché qualcuno lo distrugge, come coloro che, osannati, occupavano quelle stesse tribune.
Amore o disamore: sta a noi scegliere quale «fine del mondo» fare, senza aspettare che il Sole ci inghiotta o che ci investa Andromeda.
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it