Che cosa siamo noi, se non schiavi del tempo? Viviamo sotto la dittatura del tempo cronologico: quel tempo utilitario e vorace, quel contatore ininterrotto che non dorme mai, quel corridore che nessuno riesce a frenare. Siamo letteralmente inghiottiti dal tempo, come insinua la suggestiva immagine mitologica di Crono (Chrónos), l’invincibile re dei Titani, che divora i propri figli senza pietà. E ci ritroviamo ad abitare dentro questo processo di divoramento, a perdifiato nell’ansimante corrente dei giorni, convinti che niente si possa fermare, nel timore di qualsiasi rallentamento o pausa, e in tal modo lasciando il nostro cuore differito a un altro secolo e rimandando la vita a un’altra vita. Siamo sempre lì a spingerci in avanti, verso il fine settimana, o verso le ferie, o un’occasione propizia che non si presenta mai. Perché il tempo non è elastico.
Ma i greci, non conformisti, accanto al chrónos ave- vano un’altra concezione del tempo, cui riservavano il nome di kairós. Nel chrónos prevale una visione del tempo quantitativa, una sorta di vertiginosa contabilizzazione, una inalterabile linea continua che ci stringe nella sua tela. E se c’è una cosa che sappiamo, è che non è questa l’esperienza del tempo che darà un’anima al mondo. Il tempo può tuttavia essere sperimentato anche come realtà qualitativa, cioè come ‘tempo di’, ‘tempo per’. Ciò che in questo caso viene sottolineato non è tanto la durata quanto il momento propizio, il punto di svolta, l’ora dell’accoglienza della grazia capace di modificare i riferimenti del mondo. Se così avviene, il chrónos sarà stato trasformato in kairós.
Dalla quarantena al tempo gratuito
Nell’immaginario contemporaneo, il termine ‘quarantena’ ci riporta a mondi remoti, che la modernità ha superato, applicabile a pochi casi individuali per i quali la gravità della patologia impone questa arcana pratica di sicurezza. L’idea di intere metropoli o Paesi in quarantena rappresenta un’anomalia assoluta. Non meraviglia, per- tanto, che la prima reazione sia la paura, e dia luogo alle forme più diverse di esasperata claustrofobia. Coloro che – mossi da motivazioni religiose o da scelte consapevoli di vita – hanno imparato a rendere feconda e solidale la propria solitudine sono partiti da un percorso iniziatico, hanno educato il loro cuore in questo senso, consapevoli di andare controcorrente. In effetti, è un tipo di educazione che manca in una società dove gli stimoli dominanti vanno in direzione opposta: nella linea dell’escapismo, dello stordimento consumista, di una vita massificata e dispersa.
Per questo siamo convocati, come società, a un’esperienza pedagogica che porti a capire come la quarantena non sia unicamente un violento rimedio forzoso del quale vediamo solo i lati negativi, ma possa aiutarci, sia pure con un innegabile sforzo, a mutare il chrónos in kairós. Abbiamo passato la vita intera a dirci che time is money e nemmeno ci siamo accorti del costo esistenziale di questa affermazione. Ora può essere il momento di andare in cerca di quanto abbiamo perduto; di ciò che abbiamo sistematicamente rinunciato a dire; di quell’amore per il quale non abbiamo mai trovato una parola né l’occasione; di quella gratitudine soffocata che adesso possiamo gustare ed esercitare. Non dobbiamo guardare alla quarantena unicamente come a un avverso congelamento della vita che ci tiene reclusi, elencando maniacalmente tutto quello che stiamo perdendo. Ne usciremo più maturi se ne approfitteremo come di un dono, come di uno spazio plastico e aperto, come di un tempo per essere.
Fonte: Josè Tolentino MENDONÇA | FrancescoMacriBlog.com