Il Ministro della Famiglia contestato e zittito al Salone del libro di Torino. Non è un episodio isolato, ma l’ennesimo sintomo di una deriva culturale non nuova e diffusa
I recenti fatti verificatisi al Salone del libro di Torino, dove al ministro Eugenia Roccella non è stato consentito di presentare il proprio libro autobiografico, rappresentano l’occasione per riflettere su una deriva culturale diffusa nella società, a partire da molti luoghi di cultura e di formazione. Ne sono un’altra dimostrazione i safe spaces e le comfort zones presenti in alcune università soprattutto del mondo anglosassone, dove gli studenti possono sentirsi al sicuro da discorsi emotivamente troppo “urtanti” o “divisivi”: qui vengono approvati speech codes (codici espressivi) per regolamentare lezioni e dibattiti in università e promossi trigger warning per essere avvisati dai docenti qualora intendano affrontare argomenti controversi o che in qualche misura potrebbero generare in loro una situazione emotivamente complessa.
Sembrano lontani i tempi in cui il giovane studente Mario Savio fondava nel 1964 all’Università di Berkeley il Free Speech Movement, per difendere il diritto alla libertà di espressione e di parola degli studenti universitari come lui che si battevano in favore dei diritti civili e del contrasto delle povertà e delle ingiustizie. Paradossalmente, sembra di essere passati da una richiesta di maggiore libertà di parola (freedom of speech) a una opposta rivendicazione di libertà dai discorsi (freedom from speeches) ritenuti potenzialmente pericolosi sotto il profilo psico-emotivo oppure perché giudicati non dotati di sufficiente legittimità da poter essere accettati nell’agone pubblico.
Di questa dinamica abbiamo visto chiara manifestazione a Torino, dove si è verificato un vero e proprio caso di “no-platforming”: questo è il termine che si utilizza quando gruppi organizzati (di studenti, docenti o altro…) contestano la possibilità di intervenire ad alcuni relatori invitati per seminari, lezioni o discorsi pubblici a causa delle idee o convinzioni rappresentate dagli oratori, negando così loro una “piattaforma” dalla quale poter esprimere le proprie idee. In Italia il primo a sperimentare questo metodo e clima culturale fu Benedetto XVI con il mancato discorso alla Sapienza di Roma nel 2008.
Il tema perciò in questo caso non è tanto il dissenso, il contrasto o la discussione di certe idee – evidentemente auspicabile in un contesto libero, rispettoso, plurale e democratico – quanto piuttosto il tentativo di togliere un diritto di “cittadinanza” all’interno dell’agone culturale e sociale ad alcune idee e ad alcune personalità. Fanno dunque sorridere – sia detto per inciso – le accuse di presunte “derive autoritarie” di fronte a un ministro che non riesce neppure a presentare il proprio libro al festival dei libri… Quello che sta accadendo sempre più frequentemente nei luoghi che dovrebbero essere di cultura, di dialogo, di confronto tra idee differenti, come università e manifestazioni culturali, è il tentativo di togliere legittimità ad alcuni oratori in forza di un giudizio di “scomunica previa” di certe idee.
Già Tocqueville metteva in guardia rispetto al tentativo “della maggioranza” o, come nei recenti casi recenti, di minoranze elitarie, di escludere dal diritto di cittadinanza alcune personalità e alcune idee etichettate come estremiste o antidemocratiche. Così scriveva in Democrazia in America: «Il padrone non dice più: “Voi penserete come me o morrete”, ma dice: “Voi siete liberi di non pensare come me; la vostra vita, i vostri beni, tutto vi resta; ma da questo momento voi siete stranieri fra noi. Voi resterete fra gli uomini, ma perderete il vostro diritto all’umanità”». Il potere, ieri come oggi, mira a elargire patenti di democraticità, per stabilire chi può avere cittadinanza e chi, invece, debba essere appena tollerato, se non osteggiato.
È l’esito paradossale del nostro tempo: non la fine dei valori, non la “fine della storia”, ma la sostituzione di alcuni valori con altri, il cambiamento stesso del significato e della direzione delle parole: in nome della libertà si impedisce un diritto di libertà. Come aveva prefigurato il futuro Benedetto XVI pochi giorni prima di essere eletto Papa: «Una confusa ideologia della libertà conduce a un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile alla libertà» (Subiaco, 1 aprile 2005).
Per non correre il rischio di cadere in slogan vuoti, talvolta frutto di un narcisismo emotivo fine a sé stesso, occorrerebbe invece recuperare la consapevolezza che nessuno di noi possiede tutta la verità su tutto. Ciascuno può imparare dall’altro, perché potrebbe aiutarci a farci riflettere meglio sulle nostre convinzioni, magari confermandole, forse approfondendole, finanche facendoci cambiare in parte o in tutto idea. Un atteggiamento di umile e appassionata ricerca della verità delle cose, dunque, potendo imparare da chiunque e sempre aperti a nuove scoperte e correzioni.
Questo potrà contribuire a favorire un contesto che sia davvero democratico, segnato da un pluralismo culturale e che favorisca la crescita e la formazione di persone adulte libere e responsabili.
In questa direzione, l’educazione gioca un ruolo fondamentale: imparare, infatti, fin dalla scuola, e poi durante l’università, a pensare in modo critico e creativo, ad affrontare civilmente discussioni anche su argomenti controversi, a comprendere i valori democratici del pluralismo e del rispetto per i diversi punti di vista, a gestire il disaccordo attraverso un dialogo aperto, sempre rispettoso della persona dell’altro, è un compito fondamentale di tutta la società a cui tutti noi, con le nostre parole e le nostre azioni, possiamo contribuire.
Fonte: Francesco MAGNI* | Clonline.org
*Docente in Pedagogia generale e sociale all’Università degli Studi di Bergamo, autore di La libertà di espressione nelle università tra Usa ed Europa. Una prospettiva pedagogica (Edizioni Studium, 2022)