Ti confesso che noi due ci siamo amati tardi. A scuola era stato impossibile a colpi di schede sui personaggi, di riassunti dei capitoli e di paura delle interrogazioni. A 15 anni l’entusiasmo della lettura si spense: qualsiasi cosa, «fatta a pezzi», muore. Ci siamo ritrovati però nella stagione degli amori: l’estate precedente l’anno scolastico in cui avrei letto il tuo romanzo con la mia prima classe di superiori. Non potevo più scappare e l’ho letto integralmente, con una gioia che non credevo possibile e che da allora si rinnova a ogni rilettura. La tua storia costringeva il cuore e la mente a rompersi e crescere. Scoprivo la connessione reale tra piccolo e grande, tra la storia di due semplici innamorati e la Storia di tutti gli uomini, trovavo nelle tue pagine un effetto farfalla narrativo per cui la storia di Lucia e Renzo fa la Storia: tutto è connesso, in orizzontale e in verticale. La storia è un campo in cui grano e zizzania (erbaccia che imita la spiga ma è velenosa) crescono insieme, indistinguibili se non al momento del raccolto, un intreccio di male e bene di cui il nostro cuore è l’origine. Nel tuo capolavoro emergono così quei tre tipi di felicità che tutti noi cerchiamo: piacere, tranquillità, vocazione. I primi due, ricerca del piacere o del quieto vivere, hanno rispettivamente in don Rodrigo e don Abbondio fulgidi esponenti, antagonisti infatti del terzo tipo, che nasce dalla vocazione che spinge a creare una vita più grande, mai a scapito degli altri. Questa è la felicità cercata, con continue cadute, da Renzo e Lucia, Cristoforo, l’Innominato, Gertrude… e da tutti i personaggi «inquieti» del romanzo. Queste tre felicità creano infatti tre tipi umani: ingordi/annoiati, pigri/paurosi, ardenti/lottatori. Solo il terzo tipo di ricerca mette in movimento: don Abbondio non si muove mai da casa, don Rodrigo solo quando lo stana la peste, invece Cristoforo, l’Innominato, Gertrude non finiscono dove hanno cominciato, e Renzo e Lucia devono andar via e «accasarsi», paradosso, lontano da casa. Il tuo romanzo rivela la legge della vita: chi non «diventa» muore, per vivere da vivi bisogna rischiare la vita. Nell’ultimo capitolo i due giovani, ormai attempati, ricordano le loro vicende e provano a trarne quello che tu definisci «il sugo della storia»: Renzo ammette di aver ricevuto una lezione dai guai in cui si è messo e Lucia gli risponde, con ironia, che lui se li è cercati, mentre lei ci è finita senza alcuna colpa se non quella di aver voluto amare lui. La risposta alla domanda «irrispondibile» non è astratta, ma nella relazione dei due protagonisti, sposi: vivere è esporsi al rischio di agire, e la storia la fa la libertà umana a cui è dato scegliere se cercare il potere o l’amore. Grano e zizzania crescono insieme, sta a ognuno scegliere quale parte del campo coltivare: quella del potere (dominare e usare il mondo e gli altri) e del quieto vivere (che permette al potere di affermarsi), la zizzania che avvelena, o quella dell’ardore del desiderio, il grano che farà pane per altri. Dio, apparentemente assente, lascia la storia in mano agli uomini, dando a ciascuno il tempo e la possibilità di scegliere: indimenticabile, alla fine di tutta l’avventura, il faccia a faccia di Renzo e don Rodrigo privo di sensi, in cui al primo è chiesto di perdonare il nemico e al secondo di chiedere perdono. Che cosa succede nel loro cuore tu non lo dici, lo sa solo Dio, ma porti sempre i personaggi su questa soglia, la scelta tra grano e zizzania, verità e menzogna, vita o morte: la storia è la trama di queste scelte, così come tutta la vicenda è innescata dal capriccio di un uomo (don Rodrigo) e dalla paura di un altro (don Abbondio). Questo «sugo» invita generazioni di studenti a confrontarsi ancora con l’enigma dell’essere al mondo: qual è il mio destino? Farlo, questo «sugo», ti è costato quei 20 anni di lavoro che si sentono in ogni riga. Mentre ti scrivo guardo i miei studenti, chini sulle loro carte e quindi sulla loro carne, immersi in una cultura che, disincarnando corpi e cervelli, li allontana dal peso della libertà, dal rischio di avere e coltivare un destino. Stanno piantando, con la penna, nel loro cuore, il seme di una domanda «irrispondibile»: perché sono al mondo? Solo così potranno scegliere se essere accesi o spenti, muoversi o restar fermi, esser «pro-messi», che poi vuol dire «mandar avanti», e quindi «rischiare», come i tuoi sposi, o «di-messi», trascurarsi, ritirarsi, essere esclusi. E solo se non baratteranno il loro destino irripetibile con il potere o il quieto vivere, potranno essere vivi da vivi, e magari anche da morti. Come te, caro Manzoni, che non hai mai rinunciato a cercare risposta a tutto il dolore che ha segnato la tua vita. E lo hai trovato in una coppia di sposi. Grazie.
Fonte. Alessandro D’AVENIA | Corriere.it