È di mercoledì la notizia della bambina di un anno trovata morta in un’auto a Roma dove, in base a una prima ricostruzione, sarebbe stata lasciata dal papà convinto di averla portata all’asilo. Si parla in questi casi di “ Forgotten Baby Syndrome”, definibile come il comportamento dell’adulto – tendenzialmente il genitore – che lascia involontariamente un neonato o un bambino piccolo nell’auto chiusa a chiave, con esiti spesso fatali. Il tema – oggetto da anni di studi scientifici che lo hanno ricollegato al sistema di memoria delle nostre abitudini quotidiane – non è nuovo, tant’è che qualche anno fa è stata approvata una legge che rende obbligatorio l’uso del seggiolino antiabbandono.
Tra le tante riflessioni che una tragedia del genere stimola, una attiene all’opportunità di sanzionare penalmente quelle che, a tutta evidenza, appaiono delle tragiche distrazioni. La riflessione si ricollega a quelle che vengono chiamate «pene naturali», ossia le situazioni di sofferenza – di carattere fisico o morale – che chiunque di noi può subire per effetto della propria condotta illecita. Situazioni, in altri termini, in cui l’autore del reato ne è al tempo stessa vittima. Si pensi al caso della madre che non abbia tenuto per mano il figlio in presenza di un attraversamento stradale (non evitando un incidente mortale) o al padre che abbia perso per un momento di vista il figlio in piscina (non evitandone l’annegamento). In situazioni del genere – e la casistica non è così scarna – è indubbio che l’autore del reato abbia patito e patirà una sofferenza, in relazione alla morte del proprio congiunto, che potrebbe rendere sproporzionata, se non del tutto inutile, l’eventuale risposta sanzionatoria penale.
Ecco che si pongono allora una serie di interrogativi. Ha senso punire il responsabile – pur indubbiamente in colpa – in presenza di tragiche distrazioni? Sarebbe giusto consentire al giudice di astenersi dal pronunciare una sentenza di condanna qualora, per effetto della morte di un prossimo congiunto, l’autore abbia già subito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato? È ragionevole che possano esserci casi in cui l’applicazione di una pena risulterebbe inappropriata o comunque non necessaria? Cosa potrebbe aggiungere una ulteriore condanna? Sia chiaro: ipotesi del genere non sono contemplate nel nostro ordinamento, potendo tutt’al più il giudice, in casi simili, applicare delle circostanze attenuanti o commisurare la pena in maniera più lieve. Ed è proprio per questo che, un paio di mesi fa, il Tribunale di Firenze – chiamato a giudicare la responsabilità di un imputato che aveva cagionato, per colpa, la morte del nipote al quale era molto legato – ha chiesto alla Corte Costituzionale di dichiarare l’incostituzionalità delle norme che non consentono al giudice, in casi analoghi, di prosciogliere l’imputato. Tanti i parametri invocati dal Tribunale di Firenze: da quello della proporzionalità della pena (che dovrebbe imporre di tener conto anche della sofferenza provata) a quello di ragionevolezza (da cui deriverebbe la non necessità di applicare una sanzione penale in casi simili).
A ciò si aggiunge la considerazione – di non poco momento – tale per cui in casi come questi, essendosi in presenza di reati colposi con riferimento ai quali appaiono facilmente concedibili attenuanti, la pena che il giudice andrebbe ad applicare in concreto sarebbe comunque particolarmente lieve e quasi sempre sospesa; difficilmente, cioè, il genitore sconterebbe anche un solo giorno di carcere. Stando così le cose, ci si può legittimamente domandare quale effetto potrà mai avere una tale pena, tanto in termini di rieducazione, quanto in termini di prevenzione, dal momento che l’autore si asterrà dal commettere fatti analoghi non certamente per la lieve condanna subita, ma per la tragedia umana vissuta. Il tema è delicato e, nell’attesa della decisione della Consulta – che potrebbe, come già fatto nel recente passato, sollecitare l’intervento del Parlamento – una riflessione appare necessaria.
Avvocato e direttore della rivista Giurisprudenza Penale
Fonte: Guido STAMPANONI BASSI | Avvenire.it