E’ innegabile che al giorno d’oggi alcuni termini non sono socialmente accettati perché considerati scorretti e irrispettosi, altri vengono banditi e censurati dal discorso pubblico e chi li utilizza rischia di venire accusato o condannato per reati d’odio. Allo stesso tempo sono sorti nuovi termini o espressioni che godono di grande popolarità grazie anche al loro utilizzo costante in certa narrativa, nel giornalismo o nel linguaggio politico. Ogni cambiamento d’epoca porta con sé un cambiamento del linguaggio e ciò è facilmente intuibile nel confronto con le nuove generazioni. Ma qui non si tratta dello slang dei giovani ma di una nuova terminologia imposta da chi è impegnato ad imporre una nuova forma di pensiero. Il linguaggio, e di conseguenza l’informazione, rappresenta infatti un’arma di fondamentale importanza in mano a chi detiene il potere e mira a imporre un’unica forma di pensiero.
Al pensiero “politicamente corretto” corrisponde necessariamente un linguaggio “politicamente corretto” e chi non si esprime secondo i canoni e le regole del nuovo linguaggio tradisce la scorrettezza del proprio pensiero e dunque la propria posizione di irregolarità e di insubordinazione in una società omologata. A sottolineare in maniera magistrale il legame tra totalitarismo e linguaggio è stato George Orwell nel suo romanzo distopico intitolato “1984”. La neolingua viene imposta dal governo per contrastare (fino a farla scomparire) l’archeolingua e imporre così una nuova forma di pensiero. La messa al bando dei vecchi termini corrisponde così alla messa in bando del pensiero eretico. In altre parole la limitazione della libertà di parola (o di espressione) è proporzionale alla limitazione della libertà di pensiero. Non sono in pochi a pensare che il romanzo di Orwel non sia solamente un modello che ha funzionato in passato, ma una realtà che funziona ancora attivamente nel presente. Questa è l’opinione, tra gli altri, del filosofo francese Michel Onfray che nel suo “Teoria della dittatura” (Ponte alle grazie, 2020) vede l’Europa di Maastricht come realizzazione del totalitarismo bruno messo in atto nel romanzo orwelliano.
Un chiaro esempio di come il nuovo linguaggio viene oggi imposto per motivi ideologici (o meglio dire, politici) è il modo in cui vengono definite, sui documenti ufficiali e sui media a loro servizio, alcune pratiche che ledono la dignità e l’integrità della vita umana. L’aborto viene definito “interruzione della gravidanza”; la pratica della procreazione assistita commissionata da terzi previo contratto economico viene definita “gestazione per altri” o “maternità surrogata” mentre per l’omicidio o il suicidio medicalmente assistito viene utilizzato il termine “eutanasia” (dal greco eu-thanatos, buona morte). Per riferirsi a queste pratiche omicide viene imposto l’uso di una terminologia edulcorata e gentile che nasconde sotto un manto di buonismo delle azioni che altrimenti risulterebbero in maniera evidente indegne e inconcepibili. Per questo viene considerato improprio e intollerante l’uso del termine “omicidio” per riferirsi all’aborto e all’eutanasia, così come la definizione “utero in affitto” per quella che definiscono una lodevole pratica altruistica.
Stesso discorso per la questione del gender dove il linguaggio diventa un campo minato ed è fondamentale avere molta prudenza per non venire incontro a gogne mediatiche o cause giudiziarie. Le cause si moltiplicano a dismisura ad esempio anche quando nelle scuole o nei posto di lavoro qualcuno osa utilizzare il genere maschile per gli uomini o il femminile per le donne se quelli e queste dicono di non identificarsi col loro sesso biologico. Così si va imponendo un linguaggio inclusivo che viene sostenuto e promosso dalle più alte istituzioni nazionali e sovranazionali. Il linguaggio inclusivo mira ad eliminare ogni distinzione sessuale in nome dell’uguaglianza tra i sessi. Per questo viene oggi proposto l’uso di una nuova desinenza neutrale: lo schwa, rappresentata da una “e” rovesciata (“ə”). Un esempio della pervasività di questo linguaggio inclusivo è il fatto che anche nella Chiesa ci si senta obbligati a modificare il linguaggio per non rischiare di sembrare offensivi o semplicemente obsoleti. Così nella traduzione della terza edizione del Messale Romano l’invito latino Orate frates (non certo una locuzione misogina) è diventato “Pregate fratelli e sorelle”.
Tornando al mondo reale, le parole vietate dal nuovo linguaggio inclusivo sono tante quante quelle nuove che oggi vengono imposte. Gli errori da correggere tanti quanti le nuove formule ed espressioni che devono entrare nell’uso corrente. Come non si può parlare di razza o etnia, senza venir considerati razzisti, è necessario utilizzare una terminologia esatta e rispettosa nei confronti delle persone di colore ed omosessuali se non si vuol incappare in una denuncia per razzismo od omofobia. È proprio su queste categorie infatti, al fine di avvolgerle di una protezione speciale, che si scatena la scure del pensiero e del linguaggio politicamente corretto.
Persino affermare una lampante verità, ossia che in natura esistono solo due sessi e che di questi solo quello femminile genera una vita, può far incappare in un accusa di omo-transfobia. A questo riguardo scrive nel suo recente libro Fernando Bonete: «Certe affermazioni non possono essere fatte senza provocare scandalo. Certe domande non possono essere formulate senza generare rifiuto. Certe credenze non possono rivelarsi senza che suscitino sospetto» (Fernando Bonete Vizcaíno, Cultura de la cancelación. No hables, no preguntes, no pienses, Ciudadela 2023).
La colonizzazione ideologica passa attraverso il linguaggio e adopera la censura per imporre il proprio credo. Nel nome della correttezza del pensiero si impone una nuova corrente culturale per rompere definitivamente con un modello dominante considerato obsoleto perché centrato sul maschio, bianco, eterosessuale e cristiano, considerato l’emblema della società patriarcale. È la cancel culture (“cultura della cancellazione”), che mira a ostacolare, boicottare ed escludere chi, nell’ambito pubblico, si esprima o si comporti in maniera non corretta, chi non rivendichi le battaglie considerate giuste, chi col proprio linguaggio dimostri di non adoperarsi abbastanza per combattere le ingiustizie sociali e le istanze delle minoranze razziali (antirazzismo) e sessuali (genderismo, transessualismo e femminismo radicale). Si tratta di un totalitarismo del pensiero che si presenta come “moderato” e “terapeutico” (ben intenzionato a difendere ogni tipo di minoranza) ma che instaura un clima di “inquisizione permanente” (R. Girard) sulla maggioranza al fine di addomesticarne il pensiero. Una nuova inquisizione del pensiero, un’ideologia moralista (M. Veneziani) che miete vittime d’onore in ogni campo del sapere e delle arti.
Non si salvano dalla pervasività del linguaggio politicamente corretto il mondo dell’arte, del cinema e della letteratura. È successo all’autrice di Harry Potter J.K. Rowling, accusata di transfobia per aver affermato che un uomo resta uomo anche se travestivo. Più recente è il caso dei pluripremiati libri per ragazzi di Roald Dahl che hanno subito la scure del linguaggio corretto venendo tradotti nella neolingua per depurarli dalle tracce di scorrettezza. Anche la Disney è stata costretta a fare mea culpa rivedendo alcune scene dei suoi vecchi film di animazione – da Biancaneve agli Aristogatti – per liberarsi dalle accuse di razzismo, xenofobia, omofobia, transfobia, misoginia. Nel mondo universitario sono i capolavori della letteratura a venir ritoccati o censurati: è successo a Dante (in Belgio la Divina Commedia depurata dai versetti su Maometto perché “islamofici”) ma anche a Omero, Platone, Shakespeare, Chaucer e Cervantes.
È la fine della libertà di espressione, la morte del libero linguaggio come lo definisce il drammaturgo americano David Mamet nel suo ultimo libro (Recessional. The death of free speech and the cost of a free lunch, Harper Collinss 2022). In Italia è di recente pubblicazione il “Piccolo dizionario della neolingua” (F. Avanzini, Fede & Cultura, 2023) un pamphlet che elenca alcuni nuovi termini oggi in voga: inclusività, sostenibilità, discriminazione, omofobia, islamofobia, negazionismo, resilienza, transizione… spesso declinati in inglese, come green, gender, hate speach, body shaming, fake news… Sono le parole chiave di un nuovo dogmatismo a stelle e strisce che si impone inesorabilmente dagli Stati Uniti all’Europa.
Giulio Meotti, giornalista de Il Foglio attento osservatore e disincantato cronista della deriva culturale e sociale dell’occidente, ha dedicato un recente saggio a questo argomento (G. Meotti, I nuovi barbari. In occidente è vietato pensare e parlare? (Lindau 2023). Meotti racconta il dilagare del conformismo nichilista, un nuovo ordine intellettuale che pervade la società occidentale animando un clima di censura. I nuovi barbari censurano, cancellano, proibiscono e castigano. Non c’è spazio per il libero pensiero e il libero linguaggio sui temi sui quali il pensiero corretto ha espresso i contorni e le coordinate all’interno dei quali è consentito muoversi: immigrazione, guerra, gender, famiglia, vita, clima, pandemia e vaccini… su questi temi tutto è pensato, detto e scritto e chi oserà pensare, dire e scrivere diversamente potrà vedersi cancellato, bannato, così come la sua opera che andrà ad alimentare il rogo dei libri proibiti perché scorretti.
Cosa possiamo fare per contrastare la deriva? L’invito è semplice. Di fronte a chi vorrebbe impedire la parola, le domande e il pensiero, finché sarà ancora lecito, la vera resistenza passa dal parlare, domandare e pensare con la propria testa.
Fonte: Miguel CUARTERO SAMPERI | InTerris.it