Il lavoro con i miei ragazzi quest’anno è stato una vera sfida, in particolare con gli studenti del primo e secondo anno delle superiori che più degli altri hanno vissuto con difficoltà il periodo del Covid. Insegno religione e mi sono servito anche de Il senso religioso. Siamo partiti dalla realtà che viviamo per cercare di cogliere quel lavoro che Giussani chiede sull’esperienza religiosa: «Poiché si tratta di un fenomeno che avviene in me, che interessa la mia coscienza, il mio io come persona, è su me stesso che devo riflettere. Mi occorre un’indagine su me stesso, un’indagine esistenziale». Ho proposto interviste ad alcuni trapper, spezzoni di serie tv, testi di canzoni, video musicali e brani di letteratura o poesia che ho inserito su un sito da me creato ad hoc. Spesso ho raccontato di me e perché mi avevano colpito. Vedendoli soltanto un’ora a settimana, mi sembrava quasi impossibile far aprire quei ragazzi chiusi a riccio, ma pian piano qualcosa è accaduto.
Dopo lezioni dense di dialoghi, ho chiesto di provare a scrivermi, attraverso un modulo online anonimo. Soprattutto i ragazzi delle cinque prime hanno compilato il formulario più volte in giorni diversi e ho raccolto oltre un migliaio di domande o esperienze sul senso della vita, sulla morte, sul dolore, sul vuoto che spesso sentono. I messaggi erano quasi tutti anonimi e non potevo rispondere personalmente a nessuno, potevo soltanto riprendere gli argomenti in classe leggendo quello che era stato scritto per parlarne insieme.
Eccone alcuni.
«Ogni giorno mi chiedo che cosa aspettiamo dalla nostra vita, dalla realtà, o che cosa aspettiamo magari che ci accada, sapendo che prima o poi la nostra vita finirà».
«Prof, come posso credere ancora in Dio dopo che ha dato a una persona cara una malattia logorante che distrugge la persona e la famiglia? Per questo, oggi, dopo un persistente dolore (che non ho superato) faccio fatica a trovare un motivo per credere».
«Io a volte mi chiedo perché vivo, perché sono qua, perché devo essere io quello che soffre per il padre che non ti capisce e non ti capirà mai e che ti considera una persona che non sarà niente nella vita. La mia vita la odio, odio il fatto di essere nato e penso che nulla abbia senso».
«Perché è così difficile alzarsi la mattina sapendo che sarà una giornata orribile?».
«Domande? E che senso ha farne? Domandare è stupido come pensare che qualcuno mai risponderà ai nostri quesiti come ci aspettiamo. Che poi, anche se effettivamente qualche pazzo si prendesse la briga di provarci, un’eventuale risposta ci lascerebbe con l’amaro in bocca in quanto non sarebbe come ce l’aspettiamo. Ora sono qui, senza aspettative, senza voglia; seduta sulla stessa sedia, nello stesso plesso della stessa giornata della settimana in cui farò le stesse materie per i prossimi cinque anni. Parlate di Dio, dite che ci protegge, che ci ama. Ma per me “Dio” non c’è mai stato, non so: forse s’è dimenticato di me, mi ha accantonato e va bene così. Non voglio che la gente mi veda come quella incasinata fino al collo; sono contenta che le persone mi percepiscano come una ragazza normale, con una vita normale, a tratti simpatica, a volte forse esagerata o pesante: va bene così. Niente domande, niente dio, niente ambizioni, niente di niente: vuoto».
Sono rimasto colpito dal silenzio assoluto mentre li leggevo in classe. Si capiva che in gioco c’erano le loro vite, senza più le maschere che sono abituati a indossare con amici e compagni. Stare davanti a queste domande è durissima, ma è stata l’occasione per partire da quel realismo che spesso rischio di dare per scontato per inseguire i programmi di scuola o le cose giuste da dire o da fare per finire l’anno in pace.
Poi è arrivata la richiesta di tanti alunni di andare in gita a vedere qualcosa di bello insieme e mi sono messo a organizzarla perché ho il loro stesso desiderio di bellezza. A fine anno scolastico ci sarebbero tanti buoni motivi per tirare i remi in barca, ma le loro domande continuano a sfidarmi. Qualcuno mi chiede: «Prof, è vero che va in vacanza con dei ragazzi delle superiori? Possiamo venire anche noi?».
Un giorno un gruppo di studenti è venuto sotto casa. «Prof, volevamo salutarla». Non ho idea di come abbiano fatto a scoprire dove abito. Li ho salutati e loro sono andati via contenti, nulla di più. Rimango ammutolito e pieno di domande: cosa sta accadendo in classe che li spinge a cercarmi anche fuori? Poi ci sono i “maranza della gang”, come li chiamo io, tra i più fedeli al gruppetto di Scuola di comunità di Gioventù Studentesca. Sono quelli che fanno spesso una gran confusione, e alla fine dell’incontro rimangono per raccontarmi i guai fatti in giro o le domande che nascono dal rapporto con i genitori.
Qualcosa muove questi ragazzi e capisco che è il mio stesso desiderio di verità, bellezza, giustizia che l’incontro con Giussani tanti anni fa mi ha fatto prendere sul serio. Non so se questo sia quel “vivere intensamente il reale” ripreso da Javier Prades alla presentazione de Il senso religioso, ma andare a scuola e stare davanti alle loro domande mi ricorda ogni giorno chi sono e l’incontro che mi ha cambiato la vita, certo di aver incontrato la risposta a una domanda fatta da un mio alunno: «Prof, è vero quello che tutti dicono, che nel buio c’è sempre una luce e che prima o poi arriverà qualcuno che riempirà il mio vuoto?». Per me è assolutamente ragionevole rispondere: sì.