«Per ogni problema complesso c’è una soluzione semplice. Che è sbagliata». L’aforisma di George Bernard Shaw suona quanto mai appropriato quando si parla di migrazioni: difficile, scomoda, intrattabile, la questione migratoria viene continuamente affrontata con slogan propagandistici e soluzioni semplicistiche. Muri e barriere, con l’intento di dividere il destino degli uni da quello degli altri, non sono una soluzione: come si può pensare, in un mondo dove tutto è interconnesso (dalle merci all’energia, dalle informazioni al clima) che ostacoli fisici possano reggere l’urto di milioni di persone che scappano dalla guerra, dalla fame, dalla persecuzione?
Più di recente, ha preso piede l’idea dei ricollocamenti. Termine burocratico per definire deportazioni in Paesi terzi (ben pagati). Ma con quale idea di persona si può pensare di prendere qualcuno che ha sulle spalle una Odissea durata mesi, se non anni, e trasferirlo forzatamente in un punto qualsiasi della mappa geografica del mondo? E poi, quanto si può pensare possa durare una soluzione che solleva numerosi dubbi giuridici?
L’opinione pubblica è stanca. Da anni, l’immigrazione è al centro del dibattito. Producendo una diffusa assuefazione. Persino le notizie più drammatiche – come il recente naufragio di Pylos in cui sono morte più di 600 persone – non fanno più notizia. La retorica cosmopolita associata alle sorti magnifiche e progressive della globalizzazione neo-liberista (spesso sostenuta da chi i migranti non li ha mai conosciuti) è ormai soverchiata dai discorsi carichi di odio che alimentano emozioni, se non addirittura azioni, violente.
Che fare dunque? Il primo passo è guardare in faccia la realtà in cui viviamo e ammettere che la questione migratoria è una conseguenza strutturale del salto quantico che abbiamo compiuto negli ultimi decenni. Finita la colonizzazione, la globalizzazione ha creato una fitta rete di interdipendenze planetarie su cui si innestano persecuzioni etniche, intolleranze religiose, guerre, rivolte, cambiamenti climatici, carestie. Nel corso del 2022, i “migranti forzati” hanno già superato i 100 milioni di persone (la maggior parte delle quali verso Paesi limitrofi). E le previsioni sono di crescita.
Il mondo è out of joint (fuori asse), per usare la celebre espressione di William Shakespeare. E di fronte a questo esodo di proporzioni davvero “bibliche” la soluzione, almeno nel breve periodo, non c’è. Che fare, allora? C’è, prima di tutto, una postura etica che interpella ciascuno di noi: come ci poniamo – come persone, famiglie, chiese, associazioni, territori, imprese – di fronte a questo dramma del nostro tempo? Non è un problema che riguarda solo gli Stati. Ma qualcosa che interpella direttamente la coscienza di ciascuno. È proprio perché la soluzione facile non c’è che questo piano è chinato in causa.
C’è, in secondo luogo, il livello politico-istituzionale. Di fronte a quanto accade, le nostre società democratiche devono decidere in che direzione vogliono andare, chi vogliono essere, il tipo di mondo che vogliono creare. Avendo la capacità di mettere in campo i primi passi concreti per arrivare là dove ancora non siamo.
Sgombriamo il campo da un equivoco. Il problema non sono le risorse. Il mondo non è mai stato così ricco. Non abbiamo mai avuto tanta ricchezza economica, tecnologica, culturale, finanziaria. A livello planetario, il Pil è raddoppiato tra il 1990 e il 2009 e poi di nuovo dal 2010 al 2022. Nell’ultimo decennio la ricchezza finanziaria è passata da 5 a 7 volte quella reale.
Il problema è che questa enorme massa di risorse resta in larga parte impegnata ad aumentare il benessere e il consumo privati. In particolare, di quella quota rilevante ma limitata di persone (alcune centinaia di milioni) che vedono continuamente crescere la loro ricchezza. A discapito di tutti gli altri.
Ciò che manca è la volontà di impiegare una quota significativa di queste risorse per mettere mano alle cause del fenomeno migratorio. Cioè, per cominciare a riequilibrare il pianeta.
L’unica via (stretta) è quella di una azione politica lungimirante che, pur sapendo di non poter risolvere il problema e di dover gestire continue emergenze, non rinuncia a capire – e far capire – che investire risorse massive in programmi di educazione e sviluppo dei territori in difficoltà (specie in Africa) è la via di un percorso evolutivo che, nell’ aiutare i Paesi di partenza, costituisce anche il presupposto della sicurezza e della crescita. Loro e nostra. Ma ciò presuppone di ridefinire l’idea stessa di crescita: non più estrattiva, ma generativa, non più esclusiva ma inclusiva, non più consumerista ma centrata sugli investimenti. Non è forse questo il cuore stesso della “sostenibilità” di cui tutti parlano?
Si dirà che è una strada difficile e costosa. Vero. Ma, realisticamente, abbiamo alternative?
Fonte: Mauro MAGATTI | Avvenire.it