“Testori: ‘Tu credi che i giovani di oggi legittimino la speranza almeno quanto i giovani di vent’anni fa?’ Don Giussani: ‘La legittimano di più’. Testori: ‘Ma non solo perché sono più a fondo, non solo perché sono stati lasciati andare più a fondo…’ Don Giussani: ‘La legittimano di più perché sono più veri’. Testori: ‘Perché soffrono di più; perché non possono più barare; perché sono di fronte all’aut-aut. Adesso è veramente questione di vita o di morte. E poi perché ci sono dei segni. Una parte di giovani, che si fa sempre maggiore, è già al contrattacco; si tratta d’un contrattacco disarmato in quanto a tecniche politiche e a tecniche pratiche e sconce, ma armato in quanto a…’. Don Giussani: ‘Forza di verità’”.
Se consideriamo i tempi recenti, con il ripetersi di atti violenti che hanno come protagonisti giovani adolescenti, questo scambio tra Testori e Giussani che quasi chiude Il senso della nascita – attualissimo manuale per gente che non vuol rimanere tranquilla – sembra ad una distanza siderale dal senso comune. La maggior parte della gente rimane piuttosto senza fiato davanti all’abisso misterioso del male che ognuno può procurare a sé e agli altri, specialmente quando a farlo sono dei giovani. Si cade nel facile cortocircuito della condanna. Se si tenta di capire, quasi tutte le analisi sembrano posticce e ogni conseguente provvedimento sproporzionato allo scopo e inadeguato (maggiore selezione, voto di condotta, più regole, più leggi, più educazione civica, più repressione, eccetera).
Ci chiediamo dove intervenire, cosa curare, se possiamo farlo o meno. Ci interroghiamo se c’è qualcosa di sbagliato nell’essere umano che dobbiamo modificare, correggere, rendere inoffensivo o addirittura eliminare.
E poi, altra avvilente constatazione, c’è qualcosa di veramente nuovo in questi fatti? Tanto per non andare troppo indietro nella storia, i giovani di cui parlano Testori e Giussani appartengono a una generazione che, nella sua insorgenza più estrema e rabbiosa, ha sparato ai propri padri e non metaforicamente; forse abbiamo dimenticato il terrorismo. C’è qualche sostanziale differenza al di là dei modi, delle giustificazioni ideologiche che non ci sono più e della sempre più giovane età dei protagonisti?
Ma soprattutto, ed è il dubbio più paralizzante, siamo proprio sicuri che questi efferati delitti, o questi incoscienti e potenzialmente assassini giochi di società, celino il tentativo estremo di procurarsi la felicità e che ogni azione umana, anche se ai nostri occhi, abbia a che fare con la profondità infinita del desiderio che la muove e con la libertà che le dà quell’energia?
Ma, innanzitutto, come fanno Testori e Giussani ad affermare che i giovani della fine degli anni 70 agiscono “in forza della verità”? Da dove traggono quel giudizio così certo, scomodo, urticante per il nostro borghesismo, tanto che stentiamo ad accettarlo anche solo nella sua formulazione? Cosa vedevano che noi non riusciamo più a cogliere neanche con i più raffinati strumenti dell’analisi psico-sociologica? E, soprattutto, come facevano? Probabilmente perché amavano veramente i giovani di cui parlavano e sapevano che – come scrisse Barbiellini Amidei sul Corriere della sera nel 2005 – “il nostro tempo ha rubato qualcosa ai giovani”.
Che cosa? Il senso della loro nascita. Giussani: “Io dico che l’aspetto di gemito che c’è nella gioventù, che le tue parole mi hanno fatto riconoscere in tutte le facce dei giovani d’oggi, è proprio questa assenza. È come se la nascita non fosse presente, è come se non avessero ancora raggiunto la coscienza di questa dipendenza. Vale a dire dell’essere stati voluti… Perché il sentimento supremo è quello d’essere voluti. Quindi il loro modo di reazione dipende se, crepuscolarmente, questo presentimento s’è fatto largo tra le nubi dense, oppure no”.
Il senso della nascita, che gli adulti non hanno aiutato i giovani a distinguere, non è l’esito di un ragionamento (anche se ogni filosofia, in qualche modo, ne trae spunto) o di un discorso, ma una presenza che deve essere riconosciuta e che “abbiamo” dentro come verità non astratta della nostra esistenza, un fatto carnale, il “grumo” originario e originante perché in esso agisce la forza misteriosa e creatrice di Dio.
È impressionante come ne descrive le fattezze Testori: “quello che abbiamo chiamato prima grumo originario in me s’è sempre configurato fisicamente. Come ho sempre avuto una percezione fisica, proprio dell’essere stato grumo, così ho sempre avuto una percezione fisica dell’interiorità rapportata e riferita, dell’interiorità divina di questo grumo. A un certo punto ho fatto coincidere quella percezione che in me era ed è anche dolorosa, anzi – perché non dovrei dirlo? – sanguinante; l’ho fatta coincidere con un segno, una vera e propria ecchimosi; come se avessi una ditata qui, sulla fronte, nel cranio; una ditata; una macchia. In alcuni momenti l’ho anche maledetta, quella macchia, che era qui, proprio qui, e non riuscivo a togliermi di dosso”.
Ognuno di noi è “quel preciso, unico, irripetibile grumo di anima, di carne e di grazia” (Testori), il frutto di quell’incastonarsi dell’eterno nel temporale – per dirla con Péguy – iniziato con quel gesto che definisce anche il nostro destino di eternità, l’atto di amore con cui i nostri genitori ci hanno generato con la “partecipazione” di Dio. Si tratta di un momento non giustificato solo dall’attrattiva biochimica, come un materialismo stupido tenta di convincere i nostri ragazzi nelle scuole, slegando Dio dal nesso con la materia (Dio tutto in tutti) e rendendo questa così insignificante da poterla ridurre a oggetto di disprezzo o di piacere. L’atto di amore da cui origina il grumo è piuttosto un momento che Testori definisce di “sperdutezza” perché, come dice Giussani accogliendo con entusiasmo il termine usato dall’amico, “è la parola che indica l’altra forza che compie quel fatto, che realizza quel fatto, perché è la forza di Dio, del mistero di Dio”.
Tutto il lavoro della vita è fare memoria di questo “grumo” che siamo, di prendere coscienza di questo “esser voluti”, che continuamente ci “bracca” (Testori) come verità di noi, come presenza che ci inquieta e, insieme, come destino. Essa si manifesta come “nostalgia”, desiderio di tornare a casa. In pratica, lo scopo della vita è maturare la coscienza di essere figli per poter essere padri veramente e generare, partecipando all’azione creatrice di Dio che continua nella storia.
Solo da quella coscienza nasce una personalità gioiosa e pacifica, perché “la possibilità dell’umiltà è implicata lì; la possibilità del senso del proprio limite; e nello stesso tempo la possibilità della sicurezza, della certezza e della proceduralità del tempo. Insomma, la sicurezza, quello che il bambino è con suo padre, tra le braccia di suo padre e di sua madre, è dentro lì” (Giussani).
Cosa manca dunque ai giovani di oggi? Dei padri, si dice spesso. Sì, ma che tipo di padri? Non manca un’affettività paterna, infatti non è solo questa che i figli chiedono. Mancano dei padri che sappiano di essere figli e che sappiano comunicare quella felicità di vivere che nasce dalla consapevolezza di essere stati voluti. “Testori: ‘È la gioia d’essere loro stessi figli che non hanno comunicato ai figli’. Don Giussani: ‘È questo il punto cui volevo arrivare! Che i padri hanno preteso d’essere loro i padri; i padri e le madri hanno preteso d’essere loro i padri e le madri e hanno disatteso il segno più grande: che loro stessi erano figli’. Testori: ‘Non si sono più ricordati della sperdutezza…’. Don Giussani: ‘Ecco! Non sono mai stati resi avveduti della sperdutezza; non hanno più guardato dentro l’abisso che li trascinava nel gesto che li univa! Vale a dire: hanno dimenticato. Era come se il gesto che li univa e il frutto della generazione fosse stata una cosa loro, nata da loro’”.
Quello che manca ai padri e alle madri di oggi, a queste “paternità a mezzo o paternità casuali!” (Testori) è la coscienza religiosa della propria dipendenza. Così si diventa padroni dei figli, e questi si trovano a dover compiere da soli la fatica di recuperare la loro identità senza la testimonianza di un adulto che comunichi loro una positività di esito. Ma è un impegno e un rischio che i figli – ma anche quanti adulti! – devono pur compiere in “forza della verità” che urge dentro di loro e che li porta a dire di no a quell’assenza in un modo che, paradossalmente, è molto più potente di prima proprio perché avvertito come urgente, questione di vita o di morte.
Purtroppo, però, spesso “è un ‘no’ contro l’assenza senza aver gustato la presenza” (Giussani) facilmente manipolabile dal “meccanismo”: “il vero burattinaio è quel meccanismo che ho chiamato ‘astrazione totale’. Che è mancanza di anima; che è mancanza di nascita; che è mancanza di materia; che è mancanza di amore, d’intelligenza, di sapienza, di giudizio, d’uguaglianza; e, alla fine, di sentimenti e di bellezza” (Testori). Il “‘no’ usa gli strumenti che gli dà l’assenza”, aggiunge poco dopo Giussani, e viene così strumentalizzato in senso politico, consumistico o affettivo, come molti dei fatti più recenti documentano.
Per rispondere ad una delle domande iniziali e concludendo, uomini come Giussani e Testori, che hanno fatto per sé quel “processo che deve avvenire in tutti… faticosa risalita o ridiscesa fino al punto in cui si è stati voluti”, fino al riconoscimento liberante di essere stati fatti da Dio, sanno guardare a questi tentativi giovanili come Gesù, con carità e tenerezza, sapendo cogliere in essi il segno della nostalgia e del desiderio e donandosi come compagni discreti e sicuri al libero percorso dei giovani.
“Questo – dice don Giussani in assoluta controtendenza – è il tempo della rinascita della coscienza personale. È come se non si potessero far più crociate o movimenti… Crociate organizzate; movimenti organizzati. Un movimento nasce proprio con il ridestarsi della persona. È una cosa impressionante. Facevo prima il paragone di Davide e Golia. Proprio la persona, che di fronte a un meccanismo come quello che tu hai descritto è la cosa più ridicola, più risibile che ci sia, la cosa più sproporzionata che ci sia, e non può avere alcuna possibilità di riuscita, proprio la persona è il punto della riscossa. E così nasce il concetto di movimento, secondo me. Il valore sociale più grande di adesso per un contrattacco è proprio l’ideale di movimento, che è come se non avesse né capo né coda, non si sa come avvenga. Infatti il suo luogo di nascita è nella particella più sprovveduta e disarmata che esista: cioè la persona”.
Fonte: Roberto CECCARELLI | IlSussidiario.net