L’anziana donna che nella discarica di Darkhan nel nord della Mongolia ha trovato una statua della Madonna e che senza essere cristiana, l’ha portata nella sua casa riconoscendola come un qualcosa di bello e prezioso e poi l’ha affidata alla comunità del suo villaggio accoglierà in una ger – la tradizionale abitazione mongola – papa Francesco. Lei che quest’anno è stata battezzata e che un giorno ha salvato dalla rovina quella statua che oggi è esposta nella cattedrale di Ulan Bator è così diventata il simbolo dell’incontro tra la Chiesa mongola e il Papa. A raccontarlo è il cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulan Bator, missionario della Consolata, che, ricevuta la porpora nel Concistoro del 27 agosto 2022, aveva portato a papa Francesco in dono proprio un’immagine di quella statua.
Una donna umile nella “periferia” del mondo, una statua di Maria, recuperata tra gli scarti, che accompagna il cammino di una piccolissima Chiesa in preparazione a un evento unico per il Paese, così eminenza accogliete il Papa, ma qual è il clima che si è respirato in questo tempo di attesa?
La comunità cristiana cattolica è particolarmente in fermento per questa visita così storica. Storica perché è la prima volta che un Pontefice si reca in Mongolia, ma poco meno di ottocento anni fa papa Innocenzo IV nel 1246 inviò Giovanni di Pian del Carpine alla corte degli Imperatori mongoli per stabilire un primo contatto con questo popolo che stava avvicinandosi sempre di più all’Europa. Ci piace ricollegare questi due viaggi molto distanti nel tempo, ma che hanno delle caratteristiche in comune perché si trattava anche allora di una missione di pace, conoscenza, fraternità. Ottocento anni dopo arriva papa Francesco. E questo è l’altro aspetto, oltre a quello storico, che ha colpito i mongoli: l’importanza che lui ha voluto dare con la sua visita a una realtà marginale e lontana dai riflettori come la piccola comunità cattolica della Mongolia che conta circa 1.500 membri su quasi tre milioni e mezzo di abitanti. Un grande segno di cura che ci dice tanto del suo cuore di pastore universale che appunto ritiene di spendere le sue energie per manifestarci la sua vicinanza. Quindi noi come comunità cattolica siamo tutti molto felici di questa visita che è stata preparata soprattutto da un punto di vista spirituale anche attraverso un pellegrinaggio nelle nove comunità cattoliche del paese della statua di quella Madonna, trovata in discarica che proprio con il Papa abbiamo deciso di chiamare “Madre del cielo’”.
È una comunità in preghiera che attende il Papa, ma anche una Chiesa che sulla preghiera fonda il suo impegno per la gente. Un impegno che Francesco benedirà inaugurando lunedì prossimo la Casa della misericordia.
La Chiesa in Mongolia per il 70% delle sue attività si occupa di promozione umana e sociale. In questi ultimi tempi sembrava opportuno che la Prefettura in quanto tale avesse un suo spazio in cui questo impegno per la società forse visibile, non solo come opera di una singola congregazione, ma come espressione della Chiesa locale.
Come opererà questo servizio?
Nel nostro progetto la Casa sarà un centro di prima accoglienza dove trovare un pasto caldo, un letto per qualche giorno, per sfuggire alla violenza domestica o ad altre situazioni complesse della vita. Non vogliamo creare dei doppioni rispetto a quanto lo stato già sta garantendo alla popolazione, vogliamo semplicemente esprimere nei fatti l’attenzione che i cristiani hanno per l’altro, soprattutto quando l’altro è in difficoltà. È un aiuto che si collega a un percorso di orientamento nel quotidiano: se da un lato la povertà endemica dei primi Anni ‘90 ha lasciato il posto a un miglioramento evidente delle condizioni di vita, dall’altro questo rapido sviluppo spesso si è accompagnano situazioni di vuoto, perché le persone non sono state aiutate a stare al passo con questa rapida trasformazione. C’è un flusso migratorio continuo dalle campagne alla città per inseguire guadagni che non è detto che la gente riesca a raggiungere o che poi non sa gestire. Una situazione che la Chiesa cerca di arginare richiamando le comunità al fatto che la vita non è solo inseguire la ricchezza…
Parla di uno spirito collaborazione con lo Stato che lo stesso motto del viaggio – «Sperare insieme» – richiama…
Quando abbiamo pensato al motto volevamo trovare una espressione che tenesse insieme il valore pastorale della visita, che è anzitutto un viaggio apostolico, e il fatto che è anche la visita di un capo di Stato. Così abbiamo scelto il verbo “sperare” che fa riferimento alla virtù di cui abbiamo più bisogno nel mondo in questo momento e che per la nostra fede è una virtù teologale; ma la speranza è anche una virtù pratica riconosciuta dal mondo laico come fondamentale. In particolare, facciamo riferimento alla speranza che questo Paese rappresenta nel panorama internazionale perché è una nazione coraggiosamente impegnata sul fronte della democrazia, della libertà religiosa, della tutela dei diritti. Anche l’esperienza ecclesiale della Mongolia può essere vista come un segno di speranza. L’avverbio “insieme” indica il desiderio di fare le cose insieme sia come Chiesa, sia nella collaborazione con il governo, sia nel dialogo con le altre religioni.
Che cosa lascerà alla Chiesa mongola questa visita?
Noi abbiamo realizzato una timeline nella prefettura apostolica dove l’anno zero è il 1246 e il 2023 segna in qualche modo un traguardo molto importante. Rimarrà come segno indelebile del fatto che la Mongolia ha avuto in quell’anno la visita del Papa e quindi ha ricevuto quell’attenzione che ha sempre sentito, ma in una forma straordinaria come quella di averlo fisicamente tra i suoi confini. Poi ci saranno le parole che lui dirà che sicuramente saranno proprio “per noi’” ma al tempo stesso ci daranno maggiore respiro universale, per cui noi, pochi che siamo, in questi giorni coglieremo di essere nel cuore della Chiesa e di poter offrire alla Chiesa universale quello che siamo, che è semplicemente l’essere discepoli missionari.
Fonte: Federica Bello | Avvenire.it