Lo sviluppo, la crescita di occupazione e redditi, il miglioramento delle condizioni di benessere individuale e collettivo è l’impegno che dal dopoguerra in avanti è alla base del dibattito pubblico, delle decisioni politiche, della responsabilità delle classi dirigenti. Lo abbiamo affrontato in mille diversi modi, con disincanto e con passione o ideologia, ne abbiamo cantato le lodi e tessuto le critiche. Non c’è leva dello sviluppo che non sia stata oggetto di approfondimenti, di confronti anche accesi, di piani ordinari e straordinari: dalla tecnologia alla finanza, dal territorio alle infrastrutture, dalla mano libera del mercato all’intervento pubblico. Difficile, quindi, comprendere perché negli ultimi mesi tutto converga verso il capitale umano, il lavoro, le competenze e le capacità professionali che abbiamo o che dovremmo avere.
Una prima ragione è che negli ultimi decenni abbiamo avuto molta attenzione e cura per la qualità delle macchine, per le innovazioni, per le soluzioni tecnologiche e meno, molto meno, per la qualità delle persone e oggi ci viene presentato il conto. Una seconda ragione è che le trasformazioni in corso sono veloci, inaspettate, epocali: la transizione digitale, la crisi energetica, i cambiamenti climatici, le grandi migrazioni, il rinculo della globalizzazione, solo per citare gli esempi più noti ed evidenti. Senza le necessarie competenze e con un capitale umano non adeguato i rischi di non venirne fuori sono inaccettabili. Una terza ragione è che quello che sta cambiando non è solo il contesto nel quale il lavoro si esercita, cosa peraltro che è sempre stata nella storia dell’uomo, ma anche, se non soprattutto, il senso, il significato e il ruolo, che al lavoro, all’impegno allo sviluppo, alla crescita personale e delle nostre comunità oggi attribuiamo.
Ben venga dunque ogni nuovo sforzo, ogni nuovo approfondimento sul tema del lavoro, delle competenze, della costruzione, ricerca e valorizzazione dei talenti. In questa direzione La ricerca di Randstad e Fondazione per la Sussidiarietà, del quale saranno presentati al Meeting 2023 i primi risultati, è un prezioso contributo e uno stimolo a un impegno strutturato per la selezione e l’attrazione di nuovi talenti. Il gruppo di studio propone, a mio avviso, soprattutto un metodo di lavoro che merita di essere affrontato e implementato con una serie di accortezze e con un programma ambizioso di implementazione e revisione. Alcune considerazioni preliminari, in vista del dibattito che affronteremo a Rimini, credo aiuteranno a spiegare il mio punto di vista.
La prima considerazione è che per comprendere le dinamiche sociali che oggi toccano il sistema del lavoro, e in particolare del lavoro qualificato, serve una doppia lettura: una a grana grossa e una a grana fina. Lo studio prova a metterle insieme, sforzo non banale.
La grana grossa, quello che abbiamo tutti davanti agli occhi e che non sarà mai troppo ripetere e ribadire. Il calo demografico con una riduzione strutturale della platea dei lavoratori sta cambiando alla radice il modello di investimento sociale sul capitale umano. La nuova generazione che si è affacciata nel mondo del lavoro, per intenderci i giovani adulti con età compresa tra i 25 e i 35 anni, è la migliore da cinquanta anni a oggi per preparazione, formazione personale, determinazione ad affermarsi, conoscenza delle cose del mondo e delle tecnologie. Le Università sono da anni alle prese con un passaggio di persone, di metodo, di vocazione che stentano a completare (quando non ad avviare) e sembrano prigioniere della loro storia e di un eccesso di risorse e di attenzione. Le imprese provano a mettersi sotto sforzo nella selezione e, soprattutto, nella gestione delle risorse umane, per la prima volta dopo 30 anni spaventate dai rischi di una crisi del serbatoio delle competenze che ritenevano uno scarso problema.
Potremmo andare avanti, il punto che qui preme sottolineare è che non si comprende la crisi dei talenti senza andare a fondo dei, diversi, vincoli strutturali che abbiamo negli anni consolidato.
La grana fine, non solo i problemi strutturali ma anche l’impatto che sulle competenze hanno processi più sottili, meno evidenti e meno discussi: il dilagare senza regole e senza metodo del lavoro a distanza; l’effetto delle tecnologie nel liberare lavoro sottraendo energia alla dinamica tradizionale: più impegno, più lavoro, migliori salari, più benessere; le nuove forme di conciliazione di vita lavorativa e vita personale; l’architettura poliarchica degli interessi individuali che non trova riscontro nel lavoro come strumento di miglioramento delle condizioni collettive. Di nuovo solo alcuni esempi di quello che chiamiamo la transizione di senso, di significato, di ruolo del lavoro come espressione della vocazione e dello sviluppo della persona e delle comunità.
Il lavoro di approfondimento del gruppo di studio avviato da Randstad permette questa doppia lettura, a grana fine e con filtri più sottili anche se meno compresi. E, aspetto ancor più importante, offre anche delle soluzioni, come detto più di metodo che non di contenuto. La mia impressione è che queste si muovano in tre direzioni.
La prima: l’esigenza di immaginare una mappa delle competenze e delle professioni, come orientamento per le famiglie e per le imprese. Una mappa necessariamente dinamica, in rapida trasformazione, aperta a una revisione quasi quotidiana. Una sorta di provocazione per porre in primo piano non una sorta di elenco sterile di figure professionali, ma un metodo che spinga a definire correlazioni, similitudini, sinonimi, distinzioni tra competenze e sbocchi professionali. È evidente a tutti che alla velocità dei cambiamenti corrisponde un’altrettanto rapida variazione dei mestieri e dei modi di esercitarli, lo sforzo qui non è di costruire una tassonomia, ma di porre l’accento sulla necessità di affrontare il problema.
La seconda: l’accento, che emerge con forza dall’analisi di campo sulle imprese condotta dal gruppo di studio, sui problemi del reclutamento, del rapporto tra Università e imprese, del ruolo del complesso dei servizi dei cosiddetti cacciatori di teste e sui ritardi, gravi, della modernizzazione del processo di formazione delle competenze prima, durante e dopo gli studi universitari.
La terza: la necessità di uscire dagli schemi in tema di educazione e formazione delle competenze, di provare a guardare le cose anche dall’altra parte, di non lasciarsi ingannare dai luoghi comuni che dettano le parole chiave della selezione e della formazione come creatività, relazioni, empatia, curiosità. Tutte dimensioni importanti e utili per lo sviluppo delle imprese e dei sistemi complessi dell’economia, ma, come si diceva un tempo, condizioni necessarie ma non sufficienti. Serve altro, serve uno sforzo collettivo di ri-orientamento dell’impegno di tutti alla qualità delle persone.
L’impegno e il lavoro del gruppo di studio di Randstad Italia è, così, un punto di partenza di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Merito di questo primo approfondimento è l’aver segnato una strada e aver provato a compiere i primi passi.
Fonte: FrancescoMacriblog.com