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Università. Due tra i principali ed urgenti suoi compiti
— 22 Settembre 2023— pubblicato da Redazione. —
Come mai nell’era del web planetario e del maximum dei mezzi di comunicazione, minima è la comprensione, e la parola non riesce a tener dietro alla cosa?
Come mai ci ostiniamo a credere che il presente si riduca alla novità e che la novità esaurisca la verità, ignorando che quel Rinascimento che quotidianamente evochiamo e invochiamo ha rimosso il presente e non il passato?
Come mai non capiamo che la lezione dei classici è valore da ripensare e non feticcio da riverire, figura di ciò che sarà e non reliquia di ciò che fu?
Per fondare queste domande e munirci di un lessico comune fondamentale gioverà avvalersi dell’insegnamento di quella tradizione e lingua che è mater certa del nostro italiano; tramite del sapere e dei saperi di Gerusalemme e di Atene; eredità della politica (imperium), della religione (ecclesia), della scienza (studium) dell’Europa fino al ventesimo secolo.
Provincialismo di tempo
Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, dibattendo sul concetto di tempo in Seneca con due maestri della filologia classica e della filosofia, Scevola Mariotti e Massimo Cacciari, ci siamo ritrovati a fare nostro l’imperativo categorico senecano protinus vive, “vivi subito, vivi immediatamente, vivi il presente”. Una sorta di carpe diem stoico: un presente da possedere, in linea col pensiero classico, caratterizzato dalla concezione ciclica del tempo e dall’assenza della speranza, definita dulce malum, “un dolce inganno, un incantesimo, una droga”. Infatti quello della speranza e del suo habitat naturale, il futuro, sarà tema centrale della novitas cristiana adottato e adattato nei secoli successivi dall’illuminismo e da tanti altri -ismi della modernità, anche da quelli apparentemente più lontani dal cristianesimo: ideologie protese alle “magnifiche sorti e progressive”, che sacrificheranno il presente sull’altare dell’avvento dell’uomo nuovo annunciato sia dal verbo autonomo della ragione sia da quello eteronomo della rivelazione. Ebbene: quel comandamento senecano di vivere il presente, rimosso dalla modernità, tornò attuale, familiare e quasi consolatorio in quegli anni Ottanta e Novanta, che presero atto dei fallimenti delle tante ideologie infuturanti. Allora i viali del futuro si restrinsero e il presente ebbe la sua rivincita.
Ora, a distanza quasi trentennale da quel dibattito, ci ritroviamo di nuovo a interrogarci sul presente, come spaesati per perdita di senso e assenza di prospettiva.
Cos’è successo nel frattempo? È successo tanto; è successo quasi tutto.
È successo che noi, nati per indirizzare lo sguardo verso l’alto del cielo e di tutti i cieli, per viaggiare nella polis in compagnia degli uomini, per ereditare la terra nel segno dei padri, abbiamo abbassato gli occhi del corpo e dell’anima, ci siamo rinserrati nella cittadella dell’io, abbiamo staccato la spina della storia e polarizzato lo sguardo sullo schermo scintillante dell’hic et nunc, qui e ora: l’unico ed eterno presente. Un presente che non possediamo, ma che ci possiede e che ci trasforma in «uomini del momento» (Chateaubriand) e «servitori della moda» (Nietzsche).
Planetari per lo spazio, ci sorprendiamo affetti dal «provincialismo di tempo» (Eliot) e destinati all’«inferno dell’Uguale» (Byung-Chul Han): un mondo senza la cognizione della distanza, senza il pathos della differenza, senza l’eros dell’alterità. Stessi vocaboli, stessi slogan, stessa moda (dal latino modo, “adesso”); irretititi nel perdurante e delirante “rispondi a tutti” della grande rete del mondo (world wide web). Tutto faccia e interfaccia: senza volto, senza nome. L’inferno non sono gli altri; l’inferno è questo essere tutto uguale e tutti uguali, questa ossessione dell’uno e del medesimo: un gas nervino che brucia qualsiasi dimensione e idea di tempo e che soffoca l’anima dei nostri giovani.
Novum
Pacificare e fare coabitare il notum col novum, vale a dire le risposte dei padri con le domande dei figli; la tradizione, la storia, il passato con l’inaudito, il mai sperimentato, il mai pensato: l’inatteso che irrompe sulla scena.
Novum per i classici era sempre qualcosa di dirompente e traumatico: nova la terra e novae le leggi che gli Argonauti, lasciandosi alle spalle la terra nota e le leggi notae, cercavano con la loro spedizione sacrilega e funesta; novus, e opposto a nobilis, l’uomo che per primo nella propria famiglia con un salto sociale ricopriva una magistratura; novae le res proclamate da Lucrezio, vale a dire rivoluzionario e iconoclastico il messaggio del De rerum natura che scardinava politica e religione, i due capisaldi della cultura romana; nova, e pertanto illicita, la religione cristiana che, in nome della fede interiore e personale, rifiutava i riti e i sacrifici ufficiali ed esteriori della religio civilis. In parallelo il greco indicava con neoterismòs la “rivoluzione sociale” e con neoterìzein il “fare la rivoluzione”. La novitas – filosofica, religiosa, politica, artistica, linguistica – aveva sempre un timbro antagonistico; né poteva essere altrimenti per una cultura incentrata sul mos maiorum e sulla concezione dell’eterno ritorno.
Quale il nostro novum? Quale il suo volto e il suo nome?
Non quello che campeggia sulle copertine e nelle classifiche; non quello delle periodiche proposte politiche che non riescono a interessare né giovani né vecchi; non quello dell’amministrazione della cosa pubblica esibita, più che gestita, a colpi di like; non quello della gridata e nominalistica discontinuità; e neppure quello della improvvisata originalità, che, come dice Bernard Berenson, «è propria degli incapaci».
Queste sono novità che alimentano la cronaca, non il nuovo che fa la storia.
Novum è ben altro: è ciò che imprevedibilmente e irreversibilmente segna il destino individuale e collettivo. E se non siamo vigili, lo vediamo non in faccia, ma di spalle, quando se n’è già andato.
Il novum possiamo coglierlo nell’avvento ormai conclamato di due “barbari”, nelle due rivoluzioni che rischiano di mettere in ginocchio il vecchio ordine politico, economico, etico.
La rivoluzione sociale ovvero l’arrivo di nuovi popoli: spinti da guerra, fame, persecuzione migrano verso il nostro Occidente in cerca di quella giustizia che noi abbiamo rimosso dal nostro lessico; non solo – al pari del volo degli uccelli – sono inarrestabili ma ci ricordano che la storia deve venire a patto con la geografia e la demografia e che noi rischiamo di scontare tutta la precarietà iscritta nel nostro nome di occidentali, vale a dire “coloro che sono destinati al tramonto”. Che ai fini della nostra stessa sopravvivenza ci debba essere un’alleanza tra Oriente e Occidente è la lingua a dircelo, prima ancora che i teatri di guerra. Lo aveva còlto Costantino Kavafis: loro, i “barbari”, possono essere la soluzione.
La rivoluzione tecnologica ovvero l’impero dei media digitali: forma avanzata di conoscenza che coniuga la cultura della mano con quella del cervello e che porta con sé nuovi pensieri, nuove relazioni, nuovi stili di vita, consegnandoci inedite possibilità ma anche altrettante domande. Questo passaggio dall’analogico al digitale ha acuito la signorìa del presente e ha segnato – paradossale contrappasso della sua connessione totale e costante – un salto dalla socialità del noi alla solitudine dell’io. Nostro il compito di tradurre la comunicazione in comunità e fare dei tanti io quel noi che dovrà essere, vuoi per convinzione vuoi per necessità, il pronome del terzo millennio.
Per conoscere e renderci amico questo novum carico di complessità e di incognite, che mette a dura prova le nostre identità consolidate e rassicuranti, abbiamo bisogno di politica e di cultura, di statisti (perché diciamo leader?) e di maestri. Figure fuori moda che sentono il morso del tempo e preferiscono la verità alla consolazione; che conoscono la responsabilità maieutica di fare da levatrice al travaglio dei tempi e praticano quella pietas che si fa carico di trovare una casa ai Lari; che sono consapevoli che «la tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione delle ceneri» (Mahler); che distinguono la chiamata personale, solitaria, egregia dalle voci indistinte, collettive, gregarie.
La politica
Nel Protagora di Platone (321c-322d) leggiamo che gli uomini morivano perché non sapevano difendersi dalle intemperie e dalle belve. Allora Prometeo consegnò loro il fuoco, sottratto a Efesto, e altre abilità. Così potevano proteggersi dalle avversità della natura e dalla ferocia degli animali, ma non dagli uomini, che si facevano la guerra e si eliminavano, perché «conoscevano soltanto la tecnica (demiourgiké téchne) ma non l’arte della politica (politiké téchne)». A quel punto Zeus, temendo l’estinzione del genere umano, chiamò Hermes perché donasse a tutti gli uomini “l’arte della politica”, la sola che può salvare la vita degli uomini.
Cicerone, facendo l’esegesi di quel mito platonico, esalta la parola politica per eccellenza: res publica, “la cosa, la proprietà, il patrimonio di tutti”; in opposizione alla res privata, “la cosa, la proprietà, il patrimonio del singolo”. La res publica è definita la res populi (Repubblica 1, 39), intendendo non il populus imperiale ridotto a massa informe e manovrabile, corrotta e corruttrice, che secondo Seneca talora “prova piacere nell’affidare il potere al turpe” (Fedra 983 sg. populus gaudet tradere fasces turpi), bensì il nobile popolo repubblicano che, in coppia col Senato (Senatus populusque Romanus), è l’architrave della res publica, e che si caratterizza per la condivisione del diritto (consensus iuris) e del bene comune (communio utilitatis). È grazie al governo della res publica che il civis dispiega al massimo grado la virtus, “l’impegno”, (1, 2 usus autem eius est maximus gubernatio civitatis), e – leggiamo nel Sogno di Scipione (6, 13) – si assicura «un posto riservato in cielo» (definitus locus in caelo). Perché la politica è la responsabilità più nobile.
Messaggio pressoché incomprensibile per noi e per i nostri giorni esposti, assuefatti e, ahimé, arrendevoli al linguaggio sin troppo facile e contronatura dell’antipolitica. Contronatura: perché noi “animali politici” siamo destinati a realizzare la difficile bellezza del bene comune e a edificare la polis, e, aggiunge Aristotele, «chi vive fuori dalla comunità civile è o bestia o dio» (Politica 1253a e therìon e theòs).
Oggi la res publica – possiamo dire, adottando la prefigurazione senecana del De otio – non è più la minor, quella natale o anagrafica che comprende certi homines, uomini ben determinati, ma la maior, i cui confini sono quelli del mondo e che comprende omnes homines, tutti gli uomini. È di noi che si parla: la res publica maior della nostra Europa, la res publica maior del mondo: per la quale, secondo Seneca, tutti siamo chiamati a operare e giovare (agere et prodesse).
L’Università
L’Università, una delle istituzioni più prestigiose e più credibili del Paese che ha il privilegio di dare del tu alla storia, ha oggi una responsabilità supplementare, non riducibile a codificata ed esangue mission. I suoi maestri, i suoi uomini di pensiero, noi professori siamo chiamati a professare (profiteri) l’etica della competenza, vale a dire il sapere e i saperi nel segno dell’affascinare (delectare), insegnare (docere), mobilitare (movere); e l’etica del rigore intellettuale e morale, che non si concilia con la doxa rumorosa, la chiacchiera imperante, il facile consenso.
Vorrei indicare due compiti tra i principali e più urgenti.
In primo luogo quello di ricordare la bellezza, la prerogativa e il potere della parola: quel logos, che ci caratterizza («l’uomo è l’unico vivente che ha la parola», Aristotele, Politica 1253a) e che ci distingue dagli animali che ne sono privi (a-loga); quel logos, che, come un potente sovrano, tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia); quel logos che, nella relazione con l’altro, si fa attraversamento, passaggio, ponte: dia-logos, dialogo appunto, vale a dire impegnativo confronto di idee, non conflitto di culture.
Oggi la parola rischia di non esserci amica: isola e non comunica, affanna e non consola, uccide e non salva. Inghiottita dall’imperante legge della velocità e dal delirio del fare, è ridotta a strumento, slogan, merce; e finisce per assumere una sciagurata autonomia – una vera e propria apartheid – dalla realtà e di logorarsi in una crisi di entropia. Come lamentava Frontone, un oratore del II sec. d. C. (Epistole 1, 2, 7), anziché scegliere con cura le parole migliori (optima), ci accontentiamo di quelle che troviamo «per via»: appunto le parole «ovvie» (obvia).
Abbiamo bisogno di una ecologia linguistica, che segni la differenza tra “vocaboli” e “parole”. Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente, diceva Platone, «oltre a essere una cosa brutta in sé, fa male anche all’anima» (Fedone 115 e). Noi scontiamo una quotidiana Babele linguistica e avvertiamo la necessità di una pentecoste laica.
Perdura l’eco del lamento di Sallustio (I sec. a. C.): «abbiamo smarrito i veri nomi delle cose» (Catilina 52, 11 nos vera vocabula rerum amisimus); e ci suona fin troppo sinistramente familiare l’atto di accusa di un personaggio dell’Agricola di Tacito (30, 6) contro la voracità imperialistica dei Romani: «il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “impero” (imperium), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” (pax)». Un passo, questo, straordinariamente fortunato fino ai nostri giorni e caro sia ai movimenti pacifisti, in particolare a quello contro la guerra in Vietnam, sia al Presidente del martoriato Libano, Fouad Siniora, che nel 2006 lo citerà a Roma di fronte a Condoleezza Rice.
Uso mai dismesso quello di creare neologismi che sottendono false equivalenze e usi mistificati: pensiamo ai nostri “flessibilità” per disoccupazione, “economia sommersa” per lavoro nero, “guerra preventiva” per aggressione. La stessa parola “trasparenza” nella sua ipertrofia regolamentare non è forse il sintomo di quella cattiva coscienza che s’illude di creare la virtù per decreto?
Saranno i pensieri mignon di Twitter, sarà la semplificazione comunicativa, sarà una sorta di autofagismo mediatico; a mio parere, questo è il tempo non dei cittadini ma dei padroni del linguaggio. Nel tempo della retorica totale – dove la parola sembra più che mai essere il destino di ognuno di noi e dove i colpi di Stato si fanno a suon di parole prima ancora che di armi –, la vera tragedia è che i padroni del linguaggio mandino in esilio i cittadini della parola. In questa prospettiva la filo-logia, «la cura e l’amore per la parola», trascende il significato di disciplina specialistica e di mestiere umbratile di pochissimi studiosi, e si eleva a impegno severo e nobile di ogni uomo che non intenda né censurare né censurarsi.
Il secondo compito dell’Università: promuovere un’alleanza naturale e necessaria tra humanities e tecnologie all’insegna dell’unicità della cultura e pluralità dei linguaggi.
A chi sostiene che la scienza e le tecnologie sono destinate a scalzare inesorabilmente le humanities e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici e orientati al futuro, si dovrà replicare che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere dell’ars respondendi, della risposta ai problemi gravi e urgenti del momento (ambientali, demografici, alimentari), il sapere umanistico ha l’onere dell’ars interrogandi, della domanda.
Arte più difficile e decisiva, perché ha la responsabilità di tenere insieme, ricapitolare e interpellare gli snodi del pensiero: vale dire ricordare che il paradigma della dimenticanza, che alimenta la tecnica, non può né sostituire né escludere quello della memoria che alimenta le idee; che la discontinuità delle scoperte s’inserisce sempre e comunque nel solco della continuità della storia; che discretum e continuum ritmano, in una felice legge del due, la vita degli individui, delle società, delle epoche.
Ricordare che la cultura deve governare la politica, l’economia e la tecnica, e che all’origine dei nostri mali attuali sta una perdurante anoressia di pensieri lunghi; che la finalità e priorità della scienza è la buona vita, come già aveva ben chiaro il mio Seneca, che definiva la conoscenza il bene e l’ignoranza il male (Epistola 31, 6 quid ergo est bonum? Rerum scientia. Quid malum est? Rerum imperitia); che l’oblìo del passato e l’affidamento esclusivo agli algoritmi ci consegnano alla monocultura iper- e microspecialistica quando non addirittura a una sorta di monoteismo tecnologico; che, nonostante la narrazione seducente, dati e fatti ci dicono che internet sta creando un mondo né economicamente più giusto né socialmente più democratico; che alla scuola spetta formare cittadini digitali consapevoli, come essa ha fatto con i cittadini agricoli, i cittadini industriali, i cittadini elettronici.
Ricordare col grande Petrarca, che la condizione dell’uomo europeo è quella di «rivolgere lo sguardo contemporaneamente avanti e indietro» (simul ante retroque prospiciens); che la verità si sottrae al presente e si tende tra “il già” e “il non ancora”; che tramite, memoria, eredità di ieri sono punti di riferimento obbligati e indispensabili per conoscere e riconoscere appieno i “barbari” di oggi; che noi, prima che spazio, siamo tempo. Il tempo: la cosa più preziosa di tutte (la senecana pretiosissima res), che ci dona coscienza linguistica, morale, storica.
Proprio i classici, di ieri e di oggi, possono in questo soccorrerci e aprirci il tempio del tempo: perché essi – come ci ha ricordato il nostro caro Umberto Eco – ci allungano la vita; perché – come ci ha illuminati Osip Mandel’stǎm – il classico deve essere sentito non come ciò che è già stato ma «ciò che ancora deve essere».
Perché loro, i classici, al pari della scienza e della tecnologia, hanno il futuro nel sangue.
Conclusione
Verrà un giorno in cui si farà finalmente l’Europa e gli europei non ci saranno più. Allora i post-europei non solo non conosceranno più il sanscrito, il greco e il latino, ma non parleranno più neppure l’italiano, neppure il francese, lo spagnolo, il tedesco o lo stesso inglese. Tuttavia anch’essi, nel loro passaggio, se vorranno riconoscersi, dovranno ricorrere a un loro tramite, a una loro memoria, a una loro eredità.
Università Tor Vergata, Roma, Lectio magistralis Cerimonia inaugurale 2016-2017
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