Che cosa non hanno tirato fuori una bambina e una pesca. La grande stampa è partita all’attacco – e continua a stare sul piede di guerra da giorni – dopo la diffusione dello spot Esselunga. Al di là del fatto che non dovrebbe essere necessario tirar fuori chissà quali statistiche per dimostrare che un bambino abbia il profondo desiderio – che in questo caso sarebbe bene chiamare diritto, visto che fa tendenza – di vedere i propri genitori uniti, o perlomeno intenti a volersi bene, prima passiamo in rassegna le critiche mosse allo spot.
Vanity Fair annuncia che lo spot di Esselunga sarebbe «uno stereotipo» che veicola i «peggiori luoghi comuni sulla separazione» – perché ce ne sarebbero anche di positivi? E ancora: «Un passo indietro su famiglia e diritti» a detta del Cosmopolitan. Uno spot segnato da «classismo», ci insegna Fanpage, una pubblicità vedendo la quale come «prima reazione» sembra «che è colpa della madre se» i genitori «si sono separati» sentenziano da Repubblica e che trasmette «il messaggio rischioso della famiglia unita per forza», ci svela Adnkronos: «Il messaggio, rischioso, che passa è che ci sia un solo modello di famiglia possibile, quella felice e indissolubile». Pertanto, concedetecelo, esisterebbero persone che hanno come modello famiglie distrutte e depresse, tradimenti, figli infelici, e così via?
Selvaggia Lucarelli vuole poi insegnare a noi medievali seguaci del Mulino Bianco che la pubblicità di Esselunga non è «contemporanea». E prosegue dicendo che «così come i matrimoni non sono tutti felici, le separazioni non sono necessariamente campi di guerra, soprattutto in un momento storico in cui i matrimoni non sono più prigioni, in cui rifarsi una vita è la normalità, in cui tanti genitori riescono a condividere la genitorialità anche senza condividere il letto». Peccato che è la patina smielata a cui ci hanno abituato i vip a forza di selfie felici delle vacanze con le loro famiglie ultra-allargate a stridere con la realtà. E non il contrario. Se per un adulto, unico dio di fronte al quale la società odierna deve inchinarsi, è un diritto, anzi, è “normale” rifarsi una vita, perché per un bambino non può esserlo vedere i genitori che l’hanno messo al mondo uniti? Quanto spaventa quest’altro tipo di normalità? Perché colpevolizzerebbe i genitori separati se tanto il divorzio sarebbe una “normale” ricerca della felicità? E perché non si può dar voce al dolore dei figli di genitori separati? Gli stessi che forse oggi si sentono come un “qualcosa” da condividere – al pari del letto matrimoniale -, ma che fino a poco tempo prima rappresentavano il coronamento del perseguimento della felicità dei loro adulti di riferimento.
Allora prendiamoli questi dati. Leggiamoli e scopriremo che i figli che assistono alla separazione dei genitori si portano dentro ferite profonde e subiscono conseguenze tangibili. I figli di coppie divorziate ottengono risultati scolastici più deludenti e presentano maggiori problemi comportamentali e relazionali nei confronti degli altri, oltre che dei genitori stessi, studio dell’American Psychilogical Association alla mano. Non va poi dimenticato come il divorzio annulli l’effetto protettivo che il matrimonio ha sui figli: rispetto a un tasso di abuso infantile medio pari al 3,4 per cento, da una ricerca condotta dagli studiosi dell’Università di Toronto è infatti emerso come l’instabilità coniugale sia associata, per «i figli del divorzio», a una percentuale di abusi pari al 10,7 per cento. La ferita è poi così marcata che chi è reduce dalla divisione dei genitori sconta una probabilità più elevata, circa doppia, di sperimentare a propria volta un divorzio.
Se volessimo poi essere più concreti possibili, sarebbe necessario che qualcuno portasse alla luce anche i costi sociali del divorzio. Laddove pare lecito infatti quantificare quanto costi al pianeta una vita in più o alla società il letto di ospedale di un malato che potrebbe scegliere di morire anziché “pesare” su tutti, è curioso che in pochi provino a parlare di quanto pesi il divorzio anche in termini economici. Qualcuno però l’ha fatto, racconta Giuliano Guzzo nel suo libro Grazie a Dio, ricordando studi che, se da un lato hanno ormai alcuni anni – e che quindi oggi sono verosimilmente sottostime – dall’altro hanno comunque quantificato i costi sociali del divorzio in svariati miliardi di dollari. Ciò è stato osservato in particolare nel Regno Unito, in Nuova Zelanda e negli Stati Uniti, dove ancora nel 2008 i costi sociali annui dell’instabilità coniugale venivano stimati nella sconvolgente cifra di 112 miliardi di dollari.
Certo, è comprensibile che questo non sia esattamente quello che un genitore divorziato vorrebbe sentirsi dire. Non sono dati felici che rispecchiano la retorica del divorzio come una conquista. Ma si avvicinano alla realtà, si avvicinano al cuore di quella bambina che vive una lacerazione di fondo, troppo spesso accantonata da una società che ruota intorno ai presunti desideri degli adulti. In conclusione, lungi dall’essere moralisti o dal voler fotografare famiglie unite e perfette, allontanandoci dall’ideale “romantico” del matrimonio sempre felice, vogliamo affermare una verità. Che i bambini desiderano due genitori che si vogliano bene. E che se chiediamo al nostro “io bambino”, questo ci sentiremo rispondere. Tutti.
Fonte: Federica DI VITO | IlTimone.org