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La perdita del valore economico del lavoro e la fuga dal Paese dei giovani

La Costituzione afferma che «l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro». Ma è ancora vero? A guardare le tendenze di questi ultimi anni sembrerebbe di no. Oltre al fatto che il tasso di attività (misura della partecipazione al mercato del lavoro) é tra i più bassi in Europa (seppure in crescita), i confronti internazionali sono impietosi: tra il 1990 e il 2020, mentre in Germania e in Francia i salari medi sono aumentati di oltre il 30%, in Italia sono diminuiti del 2%. Su questa stessa linea, la quota di valore aggiunto distribuita al lavoro sul totale delle attività economiche è scesa, nel corso degli ultimi 50anni, di 10 punti, dal 75 al 65%. E infine, qualche giorno fa, una ricerca di Mediobanca ha messo nero su bianco che la perdita del valore d’acquisto dei salari nel 2022 è stato del 22%. Cosa abbastanza incomprensibile, tenuto conto che il costo del lavoro oggi è pari a circa l’8% del giro d’affari (mentre era il 18% nel 1980).

La tendenza dunque è piuttosto chiara: il lavoro in Italia vale sempre meno. Eppure non c’è protesta sociale. Non ci sono lotte, scioperi, manifestazioni. Cioè quelle forme di azione sociale tipiche della seconda metà del ‘900. Apparentemente, l’assenza di conflitto sociale potrebbe apparire una cosa positiva. Ma, in realtà, nasconde un’insidia pericolosa.

Di fronte alla perdita del valore economico del lavoro, una parte della popolazione giovanile sceglie l’exit. Per trovare opportunità che in patria non ci sono, emigrare è per molti una scelta ragionevole. E così, alla fine del 2022, erano più di un milione gli italiani (molti dei quali laureati) tra i 18 e 34 anni risiedenti all’estero. Per quelli più incerti o meno formati, l’opzione è invece quella di stazionare per anni in quella situazione di indeterminatezza, di non studio e non lavoro, che in Italia tocca numeri che non hanno confronti all’estero (poco meno di 2 milioni di giovani). Un malessere che filtra anche nella difficoltà che tante aziende incontrano con i nuovi assunti, alla ricerca di condizioni di lavoro che spesso non trovano.

Tra la popolazione adulta, quello che una volta era la partecipazione al conflitto sociale, oggi spesso diventa «adattamento opportunistico». Il modello socioeconomico è avvertito come ingiusto — la classe politica inadeguata, lo Stato inefficiente, gli stipendi dei manager spropositati, la vita dei super ricchi inaccessibile. E nonostante la progressiva erosione di molte delle certezze del passato (si pensi ad esempio alla sanità), nessuno pensa più che «il sistema» possa cambiare. Il «progresso» — che per alcune generazione aveva concretamente significato un miglioramento delle condizioni di vita — è una parola che non affascina più. Per molti «crescita» si riduce a performances sempre più spinte da soddisfare. Cosa che non è attraente per nessuno.

Quello che si cerca è un adattamento protettivo. Dove conta garantirsi un livello accettabile di consumi. a cui non si è disposti a rinunciare. E a cui si accede non più solo attraverso il lavoro. Una strategia oggi possibile, dato che l’Italia nel corso degli ultimi 80 anni ha accumulato una ricchezza diffusa. In ambito privato, la proprietà della prima casa e i patrimoni famigliari (i soli depositi bancari ammontano a 1200 miliardi di euro) permettono di costruire equilibri a geometria variabile. Soprattutto se è possibile sfruttare nuove forme di rendita, come accaduto negli ultimi due anni con il boom delle case vacanza. E in ambito pubblico, perché se anche il welfare è in continua contrazione, in un paese di anziani la spesa pubblica crea sacche che, in combinazione con il ruolo redistributivo della famiglia, permette a molti — soprattutto al Sud — di stare a galla accontentandosi di qualche forma di lavoro nero o precario. E pazienza se i conti delle famiglie tornano a danno dell’erario, sfruttando i servizi pubblici senza pagarli. Ad affievolirsi è la spinta individuale a migliorarsi attraverso il lavoro, realizzando se stessi e contribuendo alla crescita collettiva. Per molti, il futuro è solo un rischio, e quello che conta é il qui-adesso (concausa anche del crollo demografico).

Per buona parte del ceto medio, la perdita di valore del lavoro ha come effetto la strisciante secessione dall’idea di essere parte di una comunità di destino in marcia verso un futuro desiderabile. Una delusione che fatalmente tende poi a colorarsi di insofferenza se non anche di rabbia e qualche volta addirittura di odio, nei confronti di tutto ciò che sta intorno. E che trova nello straniero e nel migrante il capro espiatorio perfetto su cui scaricare la propria insoddisfazione latente. O più semplicemente una risorsa fragile da sfruttare per garantirsi servizi a basso costo (vedi il caso delle badanti).

Aldilà del salario minimo, è questa secessione il vero nodo da sciogliere. A partire dai necessari aggiustamenti nella distribuzione del reddito e dalla ricostruzione della fiducia nelle istituzioni che molti hanno perduto. Da molti anni, l’Italia è un paese fuori squadra. Il compito di un governo che vuole essere di legislatura — e che è stato eletto con i voti di gran parte della popolazione sfiduciata — è quello di provare a fermare, e se possibile invertire, questa secessione.

Fonte: Mauro MAGATTI | Corriere.it

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