Mi sono improvvisamente svegliato dal sonno che è l’allenamento all’eternità e alla fratellanza. Infatti tutti insieme, nell’emisfero in ombra, sprofondiamo nel silenzio orizzontale, e la coscienza, finalmente sottratta ai travagli diurni, riposa in pace, non per morire, ma per avere più vita.
Da questo silenzio che rende tutti semplici mi ha svegliato l’ansia dell’indomani che voleva impormi in anticipo le sue parole, obblighi e maschere. Tutto era immobile, e potevo sentire un solo rumore: quello del cuore della notte (del giorno infatti non diciamo che abbia un cuore). Persino la città lo ascolta, spegnendo rumori di corpi e macchine, di desideri e necessità. Nelle case accadevano poche cose essenziali: amori, solitudini e incontinenze, ma non riuscivo a distinguere le gioie dei primi, le richieste d’aiuto delle seconde, gli sciacquoni delle terze. Stavo a occhi aperti nel buio screziato dai fanali che filtravano dalle persiane, come le paure e i pensieri nella mente, e supplicavo che il sonno tornasse. Il problema di un’insonnia è la disfatta del giorno dopo: la stanchezza duplicata con cui dovremo affrontare proprio ciò che ci sta imponendo l’allerta e per cui dovremmo invece prepararci con un sonno ristoratore. Eravamo allora in tre: la notte, l’ansia e io. Chi avrebbe avuto la meglio?
C’è stato un tempo in cui, bambino, ero all’altezza del sonno: senza incombenza altra che assecondare i ritmi del corpo, naturali come il giorno e la notte. Non c’erano schermi retroilluminati, lavoro diverso dal vivere, carriere da costruire, maschere da mostrare, burocrazie da sconfiggere, ma solo la pace dell’essere chi si è nel grande gioco del mondo, con l’unico desiderio di partecipare e trovare gioia nelle cose. Rimpiango quel sonno tutte le volte che vedo un neonato precipitare in pochi istanti in un sonno inscalfibile.
Nella vita poi arrivò la necessità di illuminare la notte per interrogazioni e prove per le quali non mi sentivo mai abbastanza pronto. Fu allora che capii che diventare adulti è solo cominciare a perdere il sonno. E poiché il sonno perso è perso per sempre (forse la morte sopravviene per il troppo sonno perduto), ne deve valer la pena. Infatti persi il sonno per il dolore di chi mi era vicino, un dolore che mi costringeva a rimanere sul chi vive.
Poi non ho dormito quando mi sono innamorato, dicevo il nome di lei come una litania, quasi che la ripetizione potesse accorciare la distanza o l’attesa. Non c’erano ancora i cellulari ma solo i citofoni, e così il desiderio e l’azione erano ben allenati dall’assenza, mentre i messaggi li riempiono di pigrizia, ambiguità e malintesi. Non ho dormito anche perché ho letto (ho sempre pensato alla camera da letto come la stanza in cui si è molto a letto, ma anche in cui si è letto molto). Non ci sono libri più belli di quelli che strappano il sonno, e credo che dovremmo provare a ricordare quali ci sono riusciti, perché quando le parole sono più forti dell’istinto di sopravvivenza che ci chiede riposo, allora quelle parole rispondono a un istinto più radicale di quello di non volere morire, che è quello di voler nascere. Quando ero ragazzino fino a tarda notte leggevo i fumetti: storie di paperi in cerca di avventure, di Galli che difendevano il villaggio dall’invasore, di supereroi che salvavano qualcuno dal male, perché in fondo nel cuore di un uomo questi sono tre i verbi dell’essere vivi: avventurarsi, lottare, salvare. Crescendo sono diventati altri i libri notturni, di età in età, ma coniugavano sempre quei tre verbi strappa-sonno.
Mi sono rammaricato quando le immagini del cellulare hanno cominciato a contendersi le pagine, ad accendere la notte con uno schermo retroilluminato, che ci eccita, al contrario della luce riflessa sulla pagina che prima o poi ci consegna alla pace. E poi non ho dormito per conoscere le lacrime, le carezze, le paure, gli abbracci, gli abbandoni e i ritrovamenti di corpo e spirito, mie e altrui. Ma l’insonnia di quella notte era solo l’ansia del futuro che si mostra nel frustrante rigirarsi al ritmo dell’inquietudine.
E allora ho cercato di accogliere il presente: se il cuore della notte era lì, allora c’era qualcosa da ricevere. La notte più lunga della letteratura è quella che Ulisse e Penelope passano insieme dopo essersi ritrovati, hanno così tante cose da dirsi e darsi che la dea Atena interviene per allungare il corso delle tenebre. Questo è il cuore della notte: un momento di verità. E la verità è che di giorno respiriamo male e la vita che viviamo ci sta stretta. Nel cuore della notte non si può fare o dimostrare nulla, si è chi si è e si è costretti al faccia a faccia, non si può fuggire, a meno di accendere il cellulare (che ucciderà quel cuore). È il momento di riconoscere ciò che ci soffoca nella vita diurna, per accoglierlo o lasciarlo andare.
La prima cosa che Ulisse confida a sua moglie in quella notte è ciò che gli pesa di più: sa come morirà. Deve dirlo a qualcuno, altrimenti come potrà dormire? E così le racconta tutta l’Odissea e dopo si concedono l’amore che li fa scivolare poi nel sonno. Per questo è fatto il cuore della notte, per trovare il proprio cuore e quello di chi ci ama, a cui confidare che cosa ci fa morire, l’odissea che stiamo attraversando, per poter ricevere e dare l’amore che vince la morte. E allora quelle ore di veglia non sono state sottratte al sonno, ma guadagnate alla semplicità della vita.
Così ho scoperto il cuore della notte e non una notte senza cuore. Ero stanco, ma ero salvo.
Fonte: Alessandro D’Avenira | Corriere,it