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Mestre. Eppure siamo figli, mai polvere

Non era un lungo viaggio. Solo una corsa da Venezia a Mestre, una manciata di chilometri. Bus nuovo, autista esperto. Non pioveva, non c’era nebbia. Il più garantito dei tragitti. E forse i turisti su quella navetta, stanchi di una bella giornata fra le calli, sugli smartphone guardavano le foto scattate, le inviavano agli amici, che rispondevano: che meraviglia. Venezia, nel sole di un autunno mite.

Ma di colpo, spaventoso, lo schianto, il bus che precipita per quindici metri da un viadotto, il tetto del mezzo che schiaccia i passeggeri nell’acciaio. Fumo, fuoco, gente che accorre dalle case, impotente: «Dove sono i pompieri? I xe cinquanta che stanno morendo», grida un uomo in dialetto, e quasi piange. Arrivano, i soccorsi, a sirene spiegate, da tutta la provincia, ma per molti è tardi. Per gli altri le ambulanze corrono in sirena, in quella estrema urgenza e compassione che scatta fra uomini pure estranei, davanti a una tragedia. Ma in ventuno vengono portati via in barelle pudicamente coperte da teli, per non mostrare lo scempio di quella morte.

Mestre è trasfigurata nei bagliori delle luci blu dei mezzi di soccorso, un film catastrofico proiettato sulla strada dei pendolari, sulla ben conosciuta strada di ogni giorno. Cosa sia stato, ancora non sappiamo. Un malore dell’autista, un uomo forte e appena quarantenne, da un’ora montato in servizio?

Di quella che era una navetta nuova di zecca resta, là sotto, un groviglio di lamiere e ingranaggi scomposti. Ed era il viaggio più “garantito” che si possa immaginare.

Non apre forse, in noi, questa immagine, una lacerazione, un’improvvisa crepa nera in un muro integro? Quanti viaggi facciamo ogni giorno, e ben più lunghi, in aereo, in auto a 130 all’ora fra i Tir; e quanti ne fanno i nostri figli, e magari in moto, e a quale velocità. Ci pensano le madri e i padri a tarda notte, non riuscendo a dormire finché “lui” o “lei” non tornano. Quanto asfalto, quanti chilometri percorriamo ogni giorno, certi della efficienza dei motori, della manutenzione, dell’ esperienza di autisti o piloti. Andiamo, ritorniamo, tutto bene. Annoiano i ragazzi le paure delle madri, sommesse, inconfessabili: «Dai mamma, sono trenta chilometri, la strada la so a memoria». Certo anche l’autista di Mestre sapeva la sua strada a memoria. Eppure, in un attimo, ogni certezza annientata e capovolta, e la morte che falcia ventuno uomini e donne e bambini che lieti tornavano da Venezia.

Quella crepa oscura la nostra quotidianità, nei nostri progetti. Scuola, lavoro, famiglia. Bollette, tasse, soldi che non bastano. Nella bolla della nostra vita di tutti i giorni le vicende scorrono, belle o anche dure e stremanti: ma siamo qui, ogni mattina vediamo il sole.

Poi una notte in una qualunque città si spalanca quella ferita assurda: uomini e donne come noi, scelti e chiamati a un appello improvviso. Loro e non noi, loro e non quei quattro ragazzi tedeschi che, arrivati in ritardo, hanno perso la corsa.

Sulla sciagura di Mestre, come su ogni tragedia inaspettata, incombe una domanda senza risposta. Siamo di fronte al mistero. E ci sgomenta la carcassa di un bus con le ruote per aria, perché ci dice che la vita in realtà non ci appartiene, e men che meno ci appartiene quella delle persone che amiamo. Ma, non ripetono tutti i giorni gli influencer e i “vincenti”, i campioni, i ricchi, che la vita è solo nelle nostre mani? Che tutto sta a noi, nel credere in noi stessi, nel progettare e costruire ciò che vogliamo? E allora com’è che questa vita “nostra” ci viene tolta in un secondo, in circostanze anche assurde, e uno viene chiamato e l’altro, per pochi attimi, è salvo?

Lacera, la crepa aperta sotto a un ponte di Mestre, perché ci rivela impotenti, e padroni, in verità, di niente. Quei rottami, quei morti: uno schiaffo che fa tremare superficiali presunzioni.

Qualcuno pensa a un Fato cieco. Molti si pongono domande che non trovano risposta. Alcuni pregano, in silenzio, come il Patriarca di Venezia, accorso subito sotto a quel viadotto.

Viviamo una vita che non ci siamo data, e che ci può in ogni istante essere tolta. Che non accada ai miei figli, preghiamo, fra quelli che hanno un Dio cui rivolgersi, nella coscienza di un legame inestinguibile. (San Gregorio Nazianzeno: …«Io vivo e vivrò in Te. Se io non fossi tuo, o Cristo, mi sentirei creatura finita»).

Ti chiedi però come si fa, senza alcun Dio, a rabberciare la crepa, ad accettare di essere solo polvere. Forse chiudono le immagini di Mestre e vanno su Instagram, a sentire che fa questo o quel vip? Si distraggono, per non vedere su quale vuoto stanno sospesi?

Ma ogni morte torna a interrogarci. In tanti, pure feriti, gli occhi chiusi per non vedere, vanno avanti. Forse solo la vecchiaia stana da questa distrazione, quando “Lei” si fa prossima e inevitabile. Allora ci arrendiamo e ci sappiamo uomini – cioè, figli: e dunque mai polvere.

Fonte: Marina CORRADI | Avvenire.it

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