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Rifarsi un destino

«Volete figli intelligenti? Raccontate loro le fiabe», sembra che Einstein abbia risposto così a una madre che chiedeva come far diventare il figlio uno scienziato. Voler sapere che cosa succede a chi galoppa su un cavallo lanciato alla velocità della luce era la curiosità fiabesca che lo portò a scoprire la relatività. Oggi abbiamo ridotto l’intelligenza a magazzino di informazioni che servono a dominare il mondo e gli altri, trascurando l’energia che la muove alla scoperta: l’immaginazione. In questo senso uno dei doni più grandi che ci ha fatto Italo Calvino, ieri erano 100 anni dalla sua nascita, è stato scegliere, ordinare e tradurre dal dialetto ciò che mancava nella nostra tradizione: la raccolta delle Fiabe italiane. Nella prefazione scrisse il motivo che lo aveva spinto a occuparsi di fiabe: «Sono vere». E lo spiegava così: «Sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano». Il farsi di un destino: senza fiabe priviamo i bambini di ipotesi narrative sulla realtà, per questo chiedono di ascoltarle all’infinito, per sapere la verità. Non avere una fiaba preferita è una ferita al proprio destino. Perché?

Nella nostra lingua la parola «senso» indica le percezioni (i cinque sensi), la direzione (strada a doppio senso) e il significato di qualcosa (il senso del discorso, della vita…). Rispettando l’ordine crescente della parola potremmo dire che chi usa male i sensi perde la strada e con il tempo anche la meta. I cinque sensi (Calvino lasciò incompiuto un libro sui cinque sensi in cui — disse — voleva «dimostrare che l’uomo contemporaneo ne ha perso l’uso») sono la bussola verso ciò che ci rende vivi. Ognuno di noi è attratto da parti di mondo che ci spingono a metterci in viaggio verso ciò che promettono, il destino che ci aspetta, come nelle fiabe. La mancanza di meraviglia è un paradosso del nostro tempo, infatti iper-sollecitati e iper-solleticati dovremmo essere dei campioni di senso, eppure non è così, ci sentiamo anzi ancora più dis-persi e in-sensati, perché essere se-dotti non è essere con-dotti. Barattando i sensi con le sensazioni, ci affidiamo al «sensazionale» anziché al «senso», alla «viralità» più che alla «verità». I sensi fanno venire al mondo e verso il mondo, mentre le sensazioni ci ipnotizzano e paralizzano. I Greci affidarono la meraviglia alle Muse, figlie di Zeus e Memoria, dee che, attraverso la bellezza aprivano i sensi al senso del mondo. Le loro controfigure non a caso sono le Sirene, che seducono senza portare da nessuna parte se non a naufragare contro gli scogli della loro isola. Un’educazione «sensoriale» genera bambini aperti alla realtà, a differenza di una «sensazionale» che li rende iperattivi e distratti: invece di apprendere sono in apprensione. La fiaba risveglia i sensi, indica un senso, una via, e compie un destino, il senso di una vita. Quello di cui tutti abbiamo bisogno per essere vivi. Come ribadisce Calvino nella sua prefazione alle Fiabe a lui è dedicata una bellissima mostra a Roma che si intitola non a caso «Favoloso Calvino» e che ho potuto visitare sabato scorso — le fiabe costruiscono un sogno senza però permetterci di rifugiarci nell’evasione, infatti non nascondono ma rivelano tutto ciò che c’è da sapere sulla vita: «La drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana». Le fiabe, a meno che non vengano manipolate e corrette, non fanno sconti alla verità. «C’era una volta» è la promessa di un’unicità in cerca di compimento, o ci sei ora, questa volta sola, o mai più. Tutto comincia infatti sempre con una chiamata: «Che cosa sei venuto a fare al mondo che puoi fare solo tu?». Per paura che soffrano, educhiamo i bambini ad adattarsi alle aspettative del mondo, che sono spesso idoli di felicità e illusioni di destino, invece di aiutarli a chiedersi: «Che cosa ti fa sentire (ecco tornare i sensi) vivo? Fallo, costi quel che costi, perché il mondo, per salvarsi, ha bisogno di persone vive». Nelle fiabe i protagonisti fanno così, a loro rischio e pericolo, e per questo vivono felici e contenti, non solo dopo la fine della storia, ma soprattutto durante. Avere la fiaba preferita è avere un destino figurato, il senso dei sensi. La mia è tratta proprio dalle Fiabe italiane di Calvino e l’ho scoperta quando avevo 10 anni, in prima media, grazie al professore di italiano che ci fece leggere la raccolta e ci insegnò a farne i riassunti (sia lodato Aldo Viola). Si intitola «L’amore delle tre melagrane o Bianca come il latte rossa come il sangue». Calvino la riteneva la più italiana di tutte (ne è uscita da poco una bella edizione illustrata da Lidia Ziruffo). La rileggo ogni volta che ho bisogno di rifarmi il destino. Narra la vita attraverso le sue due componenti: latte e sangue, vita da ricevere e vita da dare, amare ed essere amati. La vita tutta. Se alla fine delle fiabe nostrane si dice spesso «vissero felici e contenti e noi qui a sfregarci i denti» è non solo per la loro origine contadina, ma perché siamo fatti per questa felicità già in vita, la felicità che i protagonisti hanno raggiunto, mentre noi siamo a bocca asciutta, privi di destino, troppo viventi e poco vivi. Stasera leggetevela (o la vostra preferita o un’altra a caso) o leggetela con i vostri bambini: dieci minuti di meraviglia. Le domande che sorgeranno conservatele nel cuore e nella mente. Ci vorrà una vita intera a rispondere: e sarà il farsi di un destino. Il vostro. Il loro.

Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it

 

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