Il dolore e la sfida di non odiare
Questa foto mi sconvolge. È la dimostrazione visiva del punto più basso che l’umanità può raggiungere, è l’emblema del degrado più assoluto che la guerra porta e trascina nel suo percorso di morte.
Cosa prova questo bambino guardando in faccia la sofferenza di chi gli ha dato la vita e che deve affrontare ancora dolore e difficoltà? Quella manina appoggiata al letto cerca sostegno e protezione. È incredulo, ha paura, non è capace di affrontare tanto dolore, forse non riesce neanche a piangere.
Cosa sarà di questo bambino, come e quanto questa violenza inciderà sulla sua formazione e sulla sua crescita?
Sono direttore delle Scuole di Terra Santa, ricevo tanti complimenti per l’istruzione e per il servizio offerti dalla Custodia da centinaia di anni. Nelle nostre scuole i bambini e i ragazzi sono al centro di tutto: il personale docente è molto coinvolto con me per assicurare una formazione scolastica di buon livello. Cerchiamo di stare attenti anche alla formazione personale, cerchiamo di percepire eventuali disagi psicologici soprattutto tenendo conto del contesto familiare e sociale.
Guardo questo bimbo e prego Dio perché incontri nella vita solo l’amore come quello di colei che gli ha donato la vita e che ora deve trasmettergli la forza per non odiare.
di Ibrahim Faltas
Il balbettio di fronte all’abisso del male
Ogni morte è una tragedia. Certamente quello che accade in Israele, dato che è più vicino al mio cuore, mi duole di più. Ma la morte di una persona, ovunque sia, dappertutto nel mondo, è una tragedia.
Quando ho sentito che hanno decapitato e bruciato i bambini, la mia voce si è bloccata, non potevo parlare. Perché ho pensato a un bambino che fu ucciso ad Auschwitz e, ancora sanguinante, con la sua testa ci giocavano a calcio. Come fa l’essere umano ad arrivare ad un tale abisso? Come si può chiamare “umano”, un colto tedesco che gioca a calcio con la testa di un bambino?
Tutte le guerre del mondo sono orribili, non ci sono mai guerre giuste, ma almeno una volta erano due eserciti che si scontravano. Io per come sono fatta non voglio neanche un coltello in mano, ma queste non si possono nemmeno chiamare guerre bensì massacri selvaggi.
Penso che oggi mancano le parole per poter esprimere il dolore, la sofferenza morale universale, non ci sono parole nuove per dirlo e le vecchie le abbiamo consumate, svuotate del loro significato; veramente non si sa più cosa dire, si può solo balbettare. Cosa posso dire, su cosa sento, se vedo, come ho visto oggi decapitare 40 bambini? Oppure ieri giocare a football con una testa di un bambino? Oppure nella stanza delle docce lì dove ci disinfettavano e vedevo centinaia di bambini congelati da scongelare per fare esperimenti scientifici, lì nella Germania di Thomas Mann?
Cosa posso dire se penso che in questo massacro selvaggio è stata uccisa una donna, Gina Smiatichova che era anche lei nei campi di concentramento come me, del mio popolo, della mia età, che ha trovato la morte proprio lì, nella terra promessa di Israele? Posso provare a immaginare cos’è stata per lei che è sfuggita alla morte per miracolo ai campi in Germania, e ha pensato di aver trovato finalmente protezione, una casa, nella terra dei miei avi, proprio come diceva mia madre «Quando avremo la nostra terra, promessa da Dio, vedrai figlia mia. Dormi dormi…» e questa ninna nanna mia madre me la ripeteva per addormentarmi perché non c’era niente da mangiare per cena, e mi diceva: «Vedrai che un giorno saremo nella terra promessa dove tutti aiuteranno tutti, si accoglieranno, si abbracceranno e non ci sarà più questo odio, l’antisemitismo», ed io pensavo che quello sarebbe stato il paradiso. E invece questa mia “sorella” arriva finalmente in Israele e lì viene uccisa. Una beffa, che altro dire? Un’amara ironia della sorte, un dolore doppio.
Ma non ci sono vite che valgono di meno, si può forse dire quale vita è da buttar via? Non esistono. La vita è preziosa per chiunque e tu capisci cos’è il valore della vita, così come il valore del pane, quando ti trovi in quelle situazioni che è stato il campo di concentramento, quando per vivere ti aggrappi a tutto, a un niente, a un capello, perché la vita è più forte di tutto; vuoi vivere in tutte le condizioni possibili e, come diceva Primo Levi, diventiamo i guardiani della nostra vita. Ma ogni uccisione è una tragedia perché è l’atto di un uomo contro un altro uomo.
Sembra che l’uomo non impari mai niente, perché non riesce ancora ad accogliere l’altro, ad abbracciarlo. Non so, è come se l’uomo odi se stesso, volesse punirsi. C’è un odio verso se stesso, una auto-distruzione, deve essere qualcosa di ancestrale, c’è qualcosa che non funziona nell’uomo.
Ricordo che piangevo quando, all’età di 8 anni, vedevo persone deboli essere maltrattate dagli altri (ad esempio quelli che avevano difetti fisici), perché sin da bambina il dolore dell’altro mi addolorava e chiedevo alla mamma: «Perché sono così cattivi gli uomini?». E lei mi diceva: «Figlia mia quando un albero cresce storto, come fai a raddrizzarlo?».
Eppure, nonostante tutto, penso che c’è del buono nel cuore dell’uomo ed è questo bene che deve essere coltivato, nutrito.
di Edith Bruck
Fonte: OsservatoreRomano.va