All’ultimo anno capita di scrivere lettere di presentazione per studenti che vogliono iscriversi nelle università straniere. Sono casi rari che costringono all’essenziale: che cosa posso dire di un ragazzo per descriverne l’unicità? Che cosa so veramente di lui dopo anni insieme? Scrivere queste lettere mi mette alla prova, ma è utile per capire se mi sono ridotto ad assegnare voti o se ho contribuito a un’opera più ampia, di cui i voti sono parte: mettere un ragazzo in condizioni di andare a cercare nel mondo ciò che gli serve a incarnare la propria vocazione. Educare è rendere autonomi, svegliare il maestro interiore dell’altro: quella voce, o vocazione, spinge a portare a compimento, per una vita intera, la chiamata che ciascuno di noi ha, o meglio, che ciascuno di noi è. In queste lettere bisogna infatti dipingere un ritratto completo dello studente che va dall’impegno scolastico a quello sociale, dalle attitudini accademiche a quelle relazionali. La lettera dovrebbe quindi poter rispondere alla domanda: che cosa sta venendo alla luce? Che cosa è venuto a portare al mondo che può portare solo lui? E non per affermarsi sul mondo e dominarlo, ma per restituire ciò che già appartiene al mondo: i talenti che ciascuno di noi ha sono per gli altri e non c’è nessuno che ne sia privo. Un ragazzo, a fine anno, preferirebbe questa lettera ai numeri? Essere raccontato più che contato?
Mentre scrivevo una di queste lettere di presentazione, dalla ormai pericolante colonna di libri «da leggere», mi fissavano due titoli: il tempo era arrivato. Il primo è del professore di matematica Vincenzo Arte, si intitola Crescere senza voti e fa un punto sull’annosa questione delle valutazioni e l’efficacia dell’esperienza pluriennale, inaugurata dal suo liceo romano e adottata in diverse scuole, di ridimensionare i voti (non i giudizi). La scuola che Arte propone e fa è una scuola che possa essere amata dai ragazzi, e non perché più facile. L’autore cita un comunicato ufficiale dell’Istituto superiore di Sanità dell’agosto 2023: «La maggioranza degli adolescenti non ama la scuola. Solo il 13 per cento dei ragazzi, con proporzioni leggermente maggiori per i più piccoli, dichiara di apprezzare la scuola. Percentuale che scende drammaticamente al 6 per cento tra i quindicenni». Diamo per scontato che la scuola secondaria per funzionare debba far paura, ma siamo sicuri? Il libro non propone di buttare via voti e docimologia (la scienza che studia la valutazione), che sono necessari perché il ragazzo veda i progressi delle sue prestazioni (non della sua vita), ma di corredarli o sostituirli con valutazioni più ampie (giudizi e spiegazioni del voto) e diversificate (autovalutazioni, valutazioni di gruppo), e riporta esempi, pratiche e risultati di una felice esperienza ormai quasi decennale.
Il risultato è che i ragazzi si innamorano più facilmente dello studio, perché l’amore del sapere è naturale, innaturale è odiarlo, e l’entusiasmo ritrovato diventa la principale molla cognitiva che non solo migliora le prestazioni ma anche la tenuta sul lungo periodo, infatti la paura benché costringa la memoria a prestazioni efficaci sui tempi brevi determina poi un altrettanto rapida rimozione dei contenuti. Se la relazione non funziona la didattica diventa addestramento e la valutazione una quantificazione che porta i ragazzi ad accontentarsi di passare l’anno e non ad appassionarsi, non è un caso che ci siano insegnanti seguitissimi dai ragazzi al di fuori delle mura scolastiche come Vincenzo Schettini (La fisica che ci piace), Matteo Saudino (La filosofia non è una barba), Enrico Galiano (Scuola di felicità per eterni ripetenti), Daniela Lucangeli (A mente accesa), Sandro Marenco (Dillo al prof)… per citarne solo alcuni che su queste cose hanno anche delle proposte. Non si tratta di fenomeni social ma della ricerca del sapere non connotato dalla paura ma da quella gioia che Agostino secoli fa definiva così: «Nutre la mente solo ciò che la rallegra».
Questo fa ben sperare e conferma la sfida lanciata dal secondo libro che occhieggiava dalla torre di letture in attesa: Non sparate sulla scuola di Gianna Fregonara e Orsola Riva. Le due giornaliste, che si occupano di scuola da anni, con equilibrio e dovizia di dati affrontano la crisi di un sistema obsoleto che rischia di collassare di fronte all’inverno demografico e alle sfide culturali attuali: «La scuola riusciva a essere un trampolino di classe quando anche il Paese era in crescita. Pensare che oggi possa farcela da sola a estrarre talenti e passioni dai giovani, soprattutto da quelli meno fortunati, senza introdurre anche altre forme di welfare, equivale a raccontarsi una favola. Di solito le scuole funzionano male dove funziona male tutto il resto, a partire dalle istituzioni». Questa frase mi ha fatto pensare a una recente riunione con i genitori di una classe: erano seduti ai banchi occupati al mattino dai loro figli, banchi sui quali si incontravano così paure, speranze, sogni, progetti, frustrazioni di chi è venuto al mondo e di chi al mondo ti ci ha messo. La forma che ogni vita è chiamata a darsi è irripetibile («formarsi» serve a questo: a darsi forma non a subirla) ma il mondo offre forme che prima o poi invecchiano e che non sempre corrispondono alla nostra vocazione. Come da bambini ci ostinavamo a far entrare il quadrato nel cerchio allo stesso modo l’educazione, se non è creativa, rischia di forzare l’unicità del pezzo dentro forme inadatte.
Come fare? Avendo molto chiara la forma che vuole venire alla luce per poterla difendere e coltivare, come una studentessa che qualche giorno fa, su uno di quei banchi, aveva un grosso volume per la preparazione ai test di Medicina. Sulla copertina aveva un post-it con scritto in grafia chiara: «Pensa a tutti coloro a cui potrai salvare la vita, di cui potrai aver cura». Quel post-it conteneva la sua voce, la sua vocazione, il suo perché e il suo per chi, che la sosterranno nell’affrontare la forma di selezione a numero chiuso. Mi ha spiegato che quella frase l’aiuta a con-centrarsi ogni volta che la fatica e la paura le fanno perdere di vista l’obiettivo. Spero che lei riesca a rispondere alla sua vocazione (voce e destinazione), non limitandosi a entrare in una carriera (corsa e ansia), perché se il mondo vuole un soldatino addestrato a passare un test noi abbiamo bisogno di una donna che, con i suoi talenti e la sua professionalità, si prenda cura di noi e ci salvi la vita.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it