Yuval: «Con Ahmed abbiamo lavorato insieme per cinque anni senza mai poterci vedere di persona. Eppure, abitavamo a due ore di auto di distanza». La sua famiglia è stata distrutta da un missile
«Abbiamo lavorato insieme per cinque anni senza mai poterci vedere di persona. Eppure, abitavamo a due ore di auto di distanza. Per riuscire ad incontrarci faccia a faccia, poco più di un mese fa, sono dovuto volare fino a Londra dove, nel frattempo, il mio amico si era trasferito. A Gerusalemme posso prendere un caffè con te che sei italiana, ma non con Ahmed».
Una colata di venti milioni di litri di cemento si interpone tra le vite di Ahmed Alnauq e Yuval Abraham, entrambi 29enni, entrambi giornalisti, entrambi convinti sostenitori della lotta nonviolenta per la giustizia. Ahmed, però, è nato e cresciuto a Gaza da cui, come gli altri 2,3 milioni di abitanti, non ha potuto uscire fino a quando è riuscito a passare rocambolescamnete da Rafah e a recarsi in Gran Bretagna, dove aveva vinto una borsa di studio.
Yuval, invece, è un israeliano del sud trapiantato a Gerusalemme. «Un israeliano anomalo – sorride, mentre sorseggia la versione locale del cappuccino –. Appartengo a quell’1 per cento della popolazione che sa leggere e parlare arabo. Studiarlo mi ha cambiato la vita: mi sono riconnesso ai miei antenati, ebrei provenienti dallo Yemen e dalla Libia, e finalmente ho potuto parlare davvero con i palestinesi».
Ahmed, invece, non ha potuto imparare l’ebraico e per conoscere un israeliano non in divisa ha dovuto attendere fino a 24 anni. «Era il 2019. Israele si preparava alle elezioni. Volevo capire che cosa ne pensavano le persone a Gaza. Perché? Perché la loro esistenza – in termini di permessi di lavoro fuori dalla Striscia, quantità di pesce pescato, di elettricità e acqua accessibile – dipende da Israele».
Su Facebook si è imbattuto nel profilo di Ahmed che, con un gruppo di giovani colleghi, raccontava i giorni e le notti dietro i 60 chilometri di muro con il progetto “We are not numbers”. «L’ho contattato per intervistarlo e, invece, ci siamo intervistati reciprocamente. Lui era molto curioso di parlare con un israeliano, non l’aveva mai fatto. Alla fine, mi ha detto: “Il mio sogno sarebbe tradurre quanto scriviamo in ebraico per farlo conoscere a quanti vivono dall’altra parte della barriera”.
D’istinto ho scritto un post in cui chiedevo agli amici dei social se volevano dare una mano ad Ahmed. In meno di un’ora, ho raccolto duecento disponibilità». È nata, così, la pagina “Across the border” con cui le parole del popolo di Gaza hanno scavalcato il muro. Fatto non comune.
Da diciassette anni, Israele e la Striscia sono due mondi non comunicanti. Hamas, al potere nell’enclave dal 2007, bolla come collaborazionisti quanti cercano dii costruire un dialogo con “l’altra parte della barricata”. Dopo averla blindata con una barriera avveniristica e teoricamente impenetrabile, i successivi governi di Gerusalemme hanno espunto Gaza dal dibattito pubblico. Fino al 7 ottobre.
«L’atroce massacro perpetrato da Hamas è la dimostrazione di quanto la strategia dell’attuale premier di “gestire il conflitto” sia stata miope. Non si tratta di giustificare bensì di contestualizzare. Cosa non facile in questo momento. Un vecchio amico, dopo aver letto un mio articolo, mi ha scritto: “Mi vergogno di te”. Dato il clima, ho domandato ad Ahmed se fosse il caso di andare avanti con “Across the border”. Mi ha detto: “Ora è più importante che mai”».
Il giovane palestinese non sapeva che, poco più di due settimane dopo, sarebbe stato lui a rivolgere il medesimo interrogativo all’amico.
Il 22 ottobre, un missile ha centrato la casa della sua famiglia a Dir el-Balah, nella parte sud della Striscia dove l’esercito israeliano ha ordinato ai civili di sfollare. I membri – padre, due fratelli, tre sorelle e 14 nipoti sotto i 13 anni – sono stati uccisi. «La madre era morta per un tumore tre anni prima. Ora Ahmed è completamente solo – racconta Yuval –. Ho impiegato una giornata per decidere che cosa dirgli. Alla fine ho scritto solo: “Mi dispiace”. Non sapevo se l’avrei mai più sentito.
Ci ha messo qualche giorno. Poi mi ha chiamato. Mi ha ringraziato con affetto per essergli stato vicino. Stavolta mi ha chiesto lui: “Che facciamo ora?” “Andiamo avanti, ora è più importante che mai”, ho replicato».
Il 7 ottobre è stata una crudele epifania. «Gli israeliani hanno due opzioni. O vanno avanti con tutta la forza possibile e ad ogni costo», come si sente dire, e si condannano a nuovi orrori. O si rendono conto che non potranno avere sicurezza fino a quando ai palestinesi non sarà garantita una soluzione giusta. Ora più di sempre, dunque, abbiamo necessità di parole capaci di scavalcare i muri».
Fonte: Lucia Capuzzi, inviata a Gerusalemme | Avvenire.it