Ghanem Nuseibeh è uno dei più puntuali analisti politici ed economici dello scacchiere medio-orientale. Nato a Gerusalemme, vive e lavora da molti anni a Londra, dove ha insegnato al King College, ed è stato ricercatore ad Harvard. Oltre al suo lavoro di consulente strategico, è fortemente impegnato sui problemi del dialogo interreligioso. È presidente dell’associazione inglese dei Musulmani contro l’antisemitismo, sostiene il progetto del villaggio interreligioso Neve Shalom Wahat Al Salam, e patrocina iniziative contro l’estremismo religioso.
Cosa è successo a partire dal 7 ottobre?
È successo che Hamas, un gruppo terroristico, irresponsabilmente lasciato alla guida di oltre 2 milioni di persone, ha segnato un punto di svolta nel conflitto israelo-palestinese i cui effetti si svolgeranno per diversi anni a venire. Penso che uno studio puntuale di ciò che è accaduto e di ciò che accadrà non possa prescindere da un’analisi più attenta di cosa è Hamas. Due fattori in particolare mi paiono decisivi. Il primo — spesso non sufficientemente apprezzato — è che Hamas è una filiazione dei Fratelli Musulmani, voglio dire che l’ideologia imposta da Hamas è importata da altri paesi arabi. Non è, per così dire, autoctona, e contraddice una lunga tradizione di pensiero palestinese “laico”, panarabo, socialisteggiante. La vecchia leadership dell’Olp, raccolta intorno a Yasser Arafat, aveva queste caratteristiche. Pensi ad esempio che due leader prestigiosi, e molto radicali di quegli anni, come George Habbash o Nayef Hawatmeh erano cristiani. Il fondamentalismo islamico non appartiene al carattere del popolo palestinese. Io penso che la maggior parte dei palestinesi “usi” Hamas come unico strumento possibile per liberarsi dall’occupazione, ma non credo accetterebbero mai di sopportare uno stile di vita “iraniano”. Da cosa nasce allora questa deriva fondamentalista che ha portato al potere Hamas? Nasce dall’inconcludenza dei governi dell’Olp, dalla constatazione dell’esistenza di una casta politica previlegiata che ha lasciato il popolo in una condizione miserrima.
Solo questo?
No, sicuramente il processo è più complesso. Individuerei tre momenti di passaggio verso la “religionalizzazione” del conflitto. Intanto nel 1988, quando nel conflitto afgano, sempre più “islamizzato” vengono ad unirsi combattenti provenienti da Egitto, Giordania, ma anche Palestina. Un secondo passaggio è la prima guerra in Iraq, nella quale Saddam propagandisticamente alza la bandiera (strumentale) della “liberazione di Al Quds” (Gerusalemme). Infine, il terzo passaggio (molto spesso sottovalutato nelle sue capacità diffusive) è la nascita in Qatar nel 1996 di Al Jazeera. Questa tv — a cui seguiranno altre emittenti a carattere religioso — creerà un’omogeneizzazione del pensiero politico-religioso in molti paesi arabi, e soprattutto in Palestina. Il ruolo del Qatar in tutta questa storia andrebbe maggiormente approfondito.
E gli altri paesi arabi?
La prima guerra del conflitto arabo-israeliano, quella del 1948, che gli israeliani chiamano “della liberazione” e i palestinesi ricordano come “Nabka”, la catastrofe, ebbe un effetto domino su tutti i sette paesi arabi che vi parteciparono. Gli equilibri politici interni dei paesi arabi furono scossi e cambiati dalla imprevista sconfitta militare inflitta da Israele. Da allora gli arabi hanno imparato che sulla questione palestinese occorre andare coi piedi di piombo. I politici palestinesi al contrario non sembrano aver imparato molto dalle loro “alleanze” arabe, dalle quali hanno più volte dovuto registrare cocenti delusioni, se non peggio, come in Giordania nel 1970. Pensavo a questo proprio ieri registrando le reazioni imbarazzate di parte palestinese al lungo discorso del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che pur apprezzando le stragi del 7 ottobre ha tenuto a sottolineare che si è trattato di un’iniziativa della sola Hamas.
Come andrà a finire nelle prossime settimane?
È ancora presto per dirlo. Due cose mi sembrano difficili da realizzarsi: che Hamas accetti un rientro di Mahmud Abbas a Gaza, e che giordani ed egiziani accettino di assumersi una responsabilità di interposizione prima e di amministrazione dopo. Il prezzo da pagare sarebbe troppo alto e nessuno è in grado di dargli delle garanzie di sostegno. C’è un punto ulteriore su cui sarebbe opportuno cominciare a riflettere, quello della ricostruzione di Gaza. Ad oggi, ma siamo solo all’inizio, circa 140 mila case sono state distrutte, una prima stima approssimativa dei danni gira intorno ai 40 miliardi di dollari. Quando sarà terminata la tragedia della guerra comincerà la tragedia del dare casa e pane agli abitanti di Gaza. Ma sarà una tragedia senza riflettori.
Fonte: Roberto Cetera | Osservatoreromano.va