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ULTIMO BANCO – Parole prime

Ho ricevuto una lettera che comincia così: «Sono una studentessa delle superiori, ma sono rimasta indietro per motivi di salute. Il mio desiderio più grande in questo momento è quello di morire, voglio la condanna perché ho una paura enorme del futuro, non mi interessa avere fallimenti ma neanche vittorie. Ho imparato che l’amore è sofferenza e per questo abbandono prima di essere abbandonata. La morte gradualmente si è tramutata in ossessione. Mi rapisce e mi porta agli inferi con sé. È come se avessi una corda che posso utilizzare per risalire, ma io non voglio arrivare in superficie perché in fondo quello spazietto buio lo sento mio, è confortante. Non riesco a trovare un appiglio in nessuno e per questo mi sento in colpa, perché ho una famiglia che, seppur divisa, mi ama tanto. Quando abbraccio uno di loro piango perché so che gli abbracci sono contati. Poche cose suscitano in me la curiosità che un tempo mi animava, quando sentivo il fuoco della vita in me. L’ho perso come ho perso la voglia di vivere». Sono parole che mostrano l’energia creativa della vita umana, il desiderio, ripiegarsi sul suo polo opposto: la (auto)distruzione. Per la ragazza la causa è la paura. In che rapporto stanno desiderio e paura? Sono così nemici?

La ragazza della lettera si sente paralizzata dalla paura, in questo caso del futuro. La paura è il sentimento dell’ignoto: ciò che non controlliamo fa paura, ed è normalissimo. La cultura dominante, ossessionata dal controllo e dalla sicurezza, vuole eliminare ogni forma di dolore e quindi la paura, ma è impossibile. Molti ragazzi, impegnati in un passaggio di crescita, mi chiedono come fare a non aver paura, e rispondo che non si può non aver paura, si può non aver paura di averne. Una recente ricerca del Policlinico Gemelli (#WITHYOU – La psicologia con te) ha rilevato negli adolescenti un altissimo tasso di sintomi ansioso-depressivi, che se intercettati in tempo possono essere curati in tempi brevi. L’educazione non può eliminare la paura di vivere, ma aiutare ad abitarla come sua parte. Vivere è nascere sempre più, facendo esperienza, e la parola esperienza ha un’origine che indica l’attraversare, entrare nella realtà proprio nei suoi aspetti ignoti e quindi paurosi: «Il miglior modo di venirne fuori è passare attraverso» diceva il poeta Robert Frost. Ma oggi il rapporto con l’esperienza è mutato, non siamo più noi ad andare (attra)verso il mondo, ma il mondo viene a noi schermato, dagli schermi. Questo ci priva dell’esperienza cèà+àà-òorporea del reale, aumentando l’ignoto e rendendo a poco a poco la paura insopportabile, fino a diventare angoscia: la paura è timore di qualcosa, ha un oggetto, l’angoscia è paura senza oggetto, stato di minaccia continua, che arriva fino al panico.

Come possiamo recuperare l’esperienza e la sua gradualità? Non con le esperienze al plurale, un accumulo che crediamo possa farci crescere: di chi è affidabile diciamo infatti che è «di esperienza» non «di esperienze». Non basta moltiplicare, serve trovare il fondamento (paura ha la stessa radice di pavimento, serve a sentire se cammino sulle sabbie mobili o sulla terra). L’esperienza si fa quando noi proviamo, anima e corpo, che la vita ha un pavimento, una logica, un ordine, un senso. E la paura accompagna questo attraversamento, come in ogni bosco delle fiabe. Nella lettera la ragazza scrive: «Sto leggendo un libro che parla di vita e di rinascita. Spesso leggendolo piango perché in me si crea un forte contrasto tra la voglia di vivere (che in piccolissima parte c’è) e quella di morire, che al momento è quella prevalente». Qualsiasi cosa, piena di senso (cioè capace di risvegliare i sensi), può essere fonte di esperienza: le pagine di un libro, la passeggiata con un amico, le foglie autunnali di un bosco, ma anche una prova, una malattia, un lutto. La via dell’esperienza si fa con tutta la pelle, anima e corpo. Ma questo non basta, occorre poi tradurre l’esperienza dai sensi al senso: trovare nelle cose la parola di cui sono portatrici. Qualche giorno fa passeggiavo in un parco innevato ed è apparso un gruppo di cervi, mi sono potuto avvicinare fino a trovarmi di fronte un giovane esemplare. Mi ha fissato a lungo e ha bramito, nome del loro verso, che non avevo mai sentito. In quegli occhi imperscrutabili, in quel verso primordiale, ho sentito la parola che fa innamorare, la parola della vita: «Non aver paura, sono misteriosa ma bella». Sono rimasto lì, incantato, toccato dalla vita. Solo le cose a cui permettiamo di diventare parola ci toccano e accendono il desiderio. Solo quando troviamo la parola definitiva e veritiera facciamo «esperienza», tocchiamo il pavimento delle cose, e la paura retrocede perché, benché l’ignoto resti, si mostra come promessa o ricerca, anche in un’esperienza che reputiamo negativa. Le cose senza nome invece paralizzano. Scriveva Leopardi nello Zibaldone: «All’uomo sensibile e immaginoso, che viva sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Triste quella vita che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sensi ricevono la sensazione».

Per essere felici non bastano milioni di sensazioni (quelle che cerchiamo sui social), occorre trovare la parola viva anche di una sola cosa al giorno. Educare la paura è allora educare a trovare la parola vera su qualcosa che ci tocca, sono «parole prime», quelle che come i numeri primi, non si possono scomporre perché hanno la pienezza della verità, fosse anche solo quella di una domanda ben fatta come il pastore di Leopardi, che fa «esperienza» della luna: «Dimmi, o luna: a che vale/ al pastor la sua vita,/ la vostra vita a voi? Dimmi: ove tende/ questo vagar mio breve,/ il tuo corso immortale?». Provare a rispondere è permettere al desiderio di trasformare la paura in vita, l’ignoto in futuro.

Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it

 

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