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Andrea Lanfri: «L’Everest è la metafora perfetta, niente è impossibile»

L’ex campione paralimpico pluriamputato, oggi alpinista ed esploratore racconta le sua impresa più grande in un documentario su Amazon Prime. La sua forza arriva dalla gratitudine di poter essere un modello per tante persone. La meningite? Un ostacolo per trovare soluzioni straordinarie per la sua vita

È il 2015 quando ad Andrea Lanfri, allora 29enne, viene diagnosticata la meningite fulminante con sepsi meningococcica che nel giro di qualche mese, trascorsi per lo più in coma, gli porta via entrambe le gambe e sette dita delle mani. Da quel momento Andrea non ha mai smesso di dimostrare al mondo intero che la sua vita sarebbe andata avanti comunque, meglio di prima. A chi lo dava per spacciato, a chi gli diceva che non sarebbe mai più potuto tornare in montagna, lui ha continuato a rispondere con i fatti. Con tenacia e forza di volontà, nel giro di un anno impara a correre, grazie a un crowdfunding compra le sue prime protesi in fibra di carbonio e diventa atleta parlimpico della nazionale italiana di atletica leggera.

Si inventa il progetto from0to0 un evento sportivo di endurance che unisce bici e corsa in montagna con partenza e ritorno dal livello del mare, il tutto senza mai fermarsi. Il 13 maggio 2022, insieme alla guida alpina Luca Montanari, compie l’impresa delle imprese: la vetta dell’Everest. Per Andrea, la conquista della montagna più alta del Pianeta che i nepalesi chiamano Sagarmatha, colei la cui fronte tocca il cielo, è la metafora perfetta della sua nuova vita. «Quando ero in ospedale mi dicevo che sarei tornato a fare ciò che facevo prima. Oggi posso dire che mi sbagliavo, perché mi sono spinto oltre, pratico sport che non avrei mai immaginato di poter fare», mi dice Andrea, con la consapevolezza e il sorriso pacato di chi sa dosare bene energia ed emozioni. «Ho sempre avuto un carattere forte, la malattia lo ha accentuato. Oggi la forza arriva dagli altri, dal sapere che posso essere un esempio per qualcuno».

Andrea Lanfri non si arrende mai, il suo corpo ha sempre dovuto inseguire la mente perché «niente è davvero impossibile». Lo incontro al Vibram Connection Lab a Milano dove presenta il documentario Everest with three fingers, disponibile su Amazon Prime, e il suo ingresso ufficiale tra gli atleti Vibram. Insieme svilupperanno nuove soluzioni tecniche per diverse discipline sportive, così da offrire la possibilità di praticare attività outdoor a chiunque desideri farlo, indipendentemente dalla propria condizione fisica di partenza.

Lo sport in qualche modo è stato salvifico?
«Lo sport mi ha salvato la vita due volte. La prima perché essendo uno sportivo è stato più facile riabilitare il corpo, e la seconda perché mi ha permesso di tornare a fare una vita normale».

Ha sempre avuto la montagna nel cuore o è arrivata dopo?
«Sono nato nella campagna Toscana, da piccolo facevo trekking, poi ho iniziato a fare arrampicata e alpinismo. Posso dire che la montagna sia nata con me, ma è sempre stata una passione molto più contenuta rispetto a quello che faccio oggi. Se la corsa è stata la mia riabilitazione, dato che non ho voluto chiudermi in un centro di riabilitazione vero e proprio, la montagna è stata la mia rinascita perché mi ha aiutato non solo a fare quello che facevo prima, ma ad andare oltre».

E quando ha cominciato a sognare l’Everest?
«Il ritorno alla montagna è stato una sfida nella sfida. All’inizio erano più i fallimenti che le piccole riuscite. L’Everest è arrivato perché nel tempo avevo maturato il pensiero che non esistano cose impossibili: quando ti prepari, ti alleni, sogni l’obiettivo, tutto si può fare. L’Everest per me ha rappresentato la metafora perfetta dell’impresa possibile, è stato il mio modo di urlare al mondo: vi sbagliavate! E così è stata tutta la mia vita dalla malattia in poi».

Che cosa ricorda in modo particolare?
«Il percorso fatto per arrivare fin lassù è stato bello quanto la vetta. Tra le cose più difficili e da non sottovalutare c’è stata sicuramente la logistica, forse durante la preparazione ho provato la paura più grande: non riuscire a partire, dopo tutto il lavoro fatto. Poi, nei mesi di spedizione con Luca procedevamo per piccoli step e questo ci permetteva di provare costantemente un senso di gratitudine».

Oggi è una persona forte, piena di energia. Fa parte del suo carattere o ha imparato a essere così?
«Sono sempre stato così, ma la malattia ha contribuito a tirare fuori ulteriormente questo lato di me. Sono convinto che ogni alpinista per arrivare sulla cima debba essere sempre pronto a trovare soluzioni alternative. Per me la malattia è stata un ostacolo, ma come un bravo alpinista ho semplicemente cercato delle varianti che mi permettessero comunque di arrivare sulla vetta».

Andrea Lanfri «L'Everest è la metafora perfetta niente è impossibile»

Ha mai avuto dei momenti bui?
«C’è stato un momento in ci mi sono chiesto perché proprio a me, ma è durato poche settimane, non ho mai avuto lunghi periodi di sconforto. La mia convinzione di farcela mi ha tirato fuori dal buco nero. Quando ero fisicamente distrutto e mia madre lo era mentalmente, un giorno mi disse: purtroppo non tornerai più in montagna. Quella frase ha fatto scattare la sfida che mi accompagna ogni giorno».

La sua prossima sfida?
«Sto portando a termine il progetto My Seven Summit, che prevede di scalare le montagne più alte di ciascun continente. Me ne mancano tre: il Denali in Alaska, il Monte Vinson in Antartide e il Monte Kosciuszko in Australia, che sarà il primo che affronterò».

Che cosa la spinge a fare queste imprese incredibili?
«Sento il bisogno di sfidarmi, in fondo mi preparo per mettermi alla prova. Ma non è solo questo, a darmi la carica è soprattutto la consapevolezza di essere diventato un modello per tante persone. Do energia agli altri, ma automaticamente la ricevo. Inoltre posso stare nel mio ambiente naturale e questo è infinitamente gratificante».

Fonte: Alice ROSATI | Vanityfair.it

 

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