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Indi Gregory tra medicina, etica e diritto: critica di un triplice fallimento

«Cura consiste nel badare che l’altro stia nel suo essere»:[1] così Martin Heidegger ha condensato una delle più affascinanti e suggestive definizioni di cura, rivelando al mondo almeno tre suoi elementi costitutivi.

In primo luogo, la cura esiste, possiede una propria strutturazione razionale e, quindi, può essere compresa alla luce dell’umana ragione, cioè di quella capacità universale che consente di distinguere il bene dal male.

In secondo luogo, la cura gode di una specifica cifra etica insopprimibile, ovvero la inderogabilità della relazionalità, cioè la necessità che oltre un “io” ci sia anche un “tu” che bada a quell’“io”, che non lo ignori, che non sia indifferente alla sofferenza di quell’“io”, che, cioè, esprima l’umano della coesistenzialità.

In terzo luogo, la cura si caratterizza per avere uno specifico orizzonte di senso che si radica nella dimensione ontologica, poiché consente di tutelare l’essere, tanto l’essere dell’altro su cui non si può commettere violenza, quanto l’essere proprio contro cui non si può commettere ingiustizia commettendo violenza sull’altro.

Tutto ciò costituisce la profondità filosofica, cioè razionale, della cura, quella cura che ope iudicis è stata negata alla piccola Indi Gregory, come prima di lei a Charlie Gard (2017), ad Alfie Evans (2018), ad Isaiah Haastrup (2018), a Tafida Raqeed (2019), ad Archie Battersbee (2022).

Il principio di cura, qualora fosse stato seguito nel caso di Indi, come negli altri, avrebbe consentito che ciascuno rimanesse nel proprio essere, ovvero che tutti i soggetti coinvolti – cioè  medicina, etica e diritto – rimanessero presso il proprio essere, cioè presso la verità e dunque presso l’autentica giustizia, poiché, con gli insegnamenti di Enrico Opocher «la negazione della verità è sempre negazione della giustizia».[2]

La cura, infatti, avrebbe garantito alla piccola Indi di rimanere nel suo essere figlia, cittadina, creatura sofferente, titolare di diritti naturali insopprimibili, primo tra i quali il diritto alla cura; la cura avrebbe altresì garantito all’arte medica odierna di rimanere nel proprio essere orientandosi secondo la propria vocazione, cioè la tutela della vita; la cura avrebbe inoltre garantito all’etica medica di rimanere presso se stessa pronunciandosi per l’umano ricordando il senso antropologico della sofferenza; la cura, infine, avrebbe garantito al diritto di rimanere presso il suo essere esprimendo il suo precipuo compito di difesa dei più deboli e dei più fragili.

L’assenza di cura, invece, ha comportato che Indi fosse considerata come vita indegna di essere vissuta venendo condannata a morte; l’assenza di cura ha sovvertito lo statuto dell’arte medica che ha rinnegato se stessa indirizzandosi verso un atto tanatofero; l’assenza di cura ha stravolto lo scopo della riflessione etica la quale ha svalutato il senso della sofferenza causando la mortificazione dell’umano, dei medici, del giudice, dei genitori di Indi, oltre che della piccola, ovviamente; l’assenza di cura ha capovolto la ratio fondativa del diritto facendone strumento di violenza legalizzata, sicuramente legittima, ma altrettanto indubbiamente illecita.

Di tutto ciò, nonostante la sua mastodontica portata, sembra che non siano stati in gradodi accorgersi i medici di Indi, i giudici inglesi, i bioeticisti del comitato etico della struttura ospedaliera in cui era ricoverata, nonché tutti i sostenitori della correttezza scientifica della sua eutanasia passiva in assenza di strumenti terapeutici adeguati.

In tal senso, per esempio tra i tanti, Riccardo Magi, il quale ha dichiarato secondo quanto riportato dalla stampa, che «non c’era nessun consulto medico che fosse diverso da quello espresso dai medici inglesi, il Bambino Gesù di Roma avrebbe assicurato soltanto cure palliative per questa bambina. Tra l’altro, anche in Italia, in base alla legge del 2017, qualora ci sia una valutazione dei medici difforme da quella dei familiari interviene un giudice per valutare il migliore interesse per il paziente, ovvero fermarsi nel punto in cui la vita diventa dolore assoluto e solamente dolore».

Sul punto almeno tre considerazioni.

In primo luogo: che il Bambin Gesù potesse assicurare “soltanto” le cure palliative non è circostanza né secondaria, né tanto meno trascurabile, costituendo invece la chiave di volta dell’intero problema, poiché da un punto di vista medico, etico e giuridico c’è una profonda differenza tra accompagnare alla morte con cure palliative, terapie del dolore ed eventualmente sedazione terminale profonda da un lato, e causare la morte tramite il distacco dei trattamenti di sostegno vitale.

In secondo luogo: emerge l’errore che da decenni si trascina intorno al tema del fine vita, cioè la presunta equivalenza tra i trattamenti terapeutici e i trattamenti di sostegno vitale.

Nonostante la giurisprudenza prima e i legislatori poi abbiano equiparato – per congenita incapacità razionale di distinguere due realtà diverse, per ideologia, o per poca dimestichezza con le pratiche mediche – i trattamenti terapeutici e i trattamenti di sostegno vitale, le due tipologie sono e rimangono profondamente distinte, poiché con i primi si tratta la patologia sperando nella guarigione, mentre con i secondi si tratta il paziente evitandone la morte per fame, per sete o per soffocamento.

Per questo motivo il rifiuto prima della loro somministrazione o la rinuncia dopo di essa, dei primi è sempre eticamente e giuridicamente legittima e coincidente con l’autentico senso del principio di autodeterminazione, mentre il rifiuto o la rinuncia dei secondi non è sempre legittimo se non nell’imminenza del momento del trapasso.

Il tema, del resto, si interseca con il duplice profilo del principio/diritto di autodeterminazione e con quello al consenso informato, entrambi gravemente compressi negli ultimi anni in genere e nel caso di Indi in particolare.

In terzo luogo: la normativa italiana chiamata in causa da Magi, come da altri, non è correttamente intesa, poiché la legge 219/2017, per quanto sia eutanasicamente orientata, almeno secondo l’interpretazione fornita dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza 242/2019, non regola il problema nel modo indicato da Magi.

Diversamente da quanto ritiene Magi, per il quale «in base alla legge del 2017, qualora ci sia una valutazione dei medici difforme da quella dei familiari interviene un giudice», infatti, l’articolo 3 comma 5, della suddetta legge nostrana,[3] prevede l’intervento del giudice nell’eventualità esattamente inversa rispetto al caso di Indi, cioè quella per cui il medico intende proseguire i trattamenti, mentre i genitori o i rappresentanti legali invece intendono interromperli.

Le norme dovrebbero essere meditate con attenzione, poiché la loro frettolosa lettura e la loro indebita estensione oltre la lettera e lo spirito per cui sono pensate, conduce sempre ad imbarazzanti errori interpretativi e applicativi con speciosi disastri giuridici e, ancor peggio, umani.

In conclusione, dunque, dalla vicenda di Indi si evincono tre principali e nefasti fallimenti strutturali dell’epoca contemporanea.

Il fallimento della medicina, almeno di quella concezione della medicina per cui il suo senso più intimo e reale risiede, come ha insegnato Viktor von Weizsäcker,[4] nell’aiuto al sofferente, e non già nella sua eliminazione fisica, morale o giuridica.

Il fallimento del pensiero bioetico che è rimasto intrappolato nella dialettica orizzontale tra vite cosiddette “degne o indegne di essere vissute”, avendo dimenticato la preziosa lezione di Dietrich Bonhoeffer per il quale, invece, nel campo dell’etica occorre ponderare sempre con massima attenzione in quanto «la distinzione tra vita degna e vita indegna distrugge presto o tardi la vita stessa».[5]

Infine, il fallimento del diritto che è divenuto strumento di morte di un’innocente avendo perduto di vista la propria ragion d’essere e la propria razionalità come evidenziato da Sergio Cotta per il quale, infatti, «il diritto non può violare il principio della inviolabilità dell’innocente senza negare la propria essenza di regola giusta per trasformarsi in violenza. Là dove per legge diventa lecito uccidere un innocente, s’instaura l’arbitrio, ossia la licenza di compiere o di non compiere a proprio piacimento un atto dannoso per altri[…]. E questo arbitrio è, concettualmente ed esistenzialmente, la negazione della regola e della vita secondo la regola».[6]

A tutto ciò si spera di non assistere più in futuro, per il bene della dignità degli esseri umani coinvolti, nonché per la dignità della medicina, dell’etica e del diritto.

Fonte: Aldo Rocco Vitale | CentroStudiLivatino.it


[1] Martin Heidegger, Il detto di Anassimandro, in Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pag. 336.

[2] Enrico Opocher, Analisi dell’idea di giustizia, Giuffrè, Milano, 1977, pag. 66.

[3] «Nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria».

[4] «L’essenza reale dell’essere malati è uno stato di bisogno e si esprime come richiesta d’aiuto»: Viktor von Weizsäcker, Filosofia della medicina, Guerini e associati, Milano, 2000, pag. 83-84.

[5] Dietrich Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1969, pag. 137.

[6] Sergio Cotta, Perché il diritto, La Scuola, Brescia, 1979, pag. 100.

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