Da un’idea di don Samuele Pinna ha preso vita “Dietro le quinte”, una rubrica senza periodicità che vuole incontrare quei personaggi importanti che lavorano per il bene e non sempre appaiono in prima fila, ma appunto sono spesso “dietro le quinte”. Dopo la prima puntata – che ha visto protagonista il nuovo Vicario episcopale per la zona pastorale di Milano, monsignor Giuseppe Vegezzi -, in questa seconda c’è un dialogo con la signora Maria Amata Vasaturo in Pedersoli.
«Dietro ogni grande uomo c’è una grande donna». Non sappiamo se questa frase – attribuita alla scrittrice britannica Virginia Woolf – sia sempre veritiera, ma lo è senza incertezze nel caso di Maria Amato Vasaturo. Il grande uomo – in tutti i sensi – a cui ci si riferisce è Bud Spencer (1929-2016), al secolo Carlo Pedersoli, con cui la signora Maria è convolata a nozze il 25 febbraio 1960. Il frutto del loro matrimonio sono stati tre figli – Giuseppe, Cristiana e Diamante – con molti nipoti, e la loro unione è durata ben cinquantasei anni: «Io gli ho dato sempre libertà. Per carattere non sono possessiva e trovo che la gelosia ossessiva d’imporsi sull’altro sia sbagliata, così come voler che il proprio marito ragioni esattamente come vorrebbe la moglie, diventando così la padrona della vita altrui».
Il ragionamento non si spegne e viene riattizzato: «Non sono gelosa di natura, perché non voglio costringerti ad amarmi, se tu mi ami sono felice ma se tu non mi ami e ti costringo ad amarmi è per me una sopraffazione che poi non mi soddisfa; sono più esigente». Mi fermo un attimo: l’istituzione della famiglia oggi è bistrattata, mentre agli occhi di tutti dovrebbe avere un’importanza strategica per la società e il suo futuro: «Oggi la famiglia è persa. Lo sfacelo che c’è adesso è terribile. Molte cose sono travisate e di amore se ne vede poco». Nondimeno, il nucleo famigliare continua a essere importante, perché scuola di comunità: «Ci sono piccole cose, come può essere il cenare insieme in cui ci si aspetta e si dialoga», oppure – proseguo io – l’educazione della prole quale futuro della collettività: «Mi accorgo – mi spiega la compagna di una vita di Bud – che l’amore verso un figlio rischia di diventare egoismo quando il genitore anziché accompagnarlo, senza prevaricare, impone quello che deve fare, andando contro la sua natura. Io penso che dell’amore se ne parla tanto ma se ne pratica poco».
Forse, davvero oggi si riveste il termine “amore” con quello che amore non è. La signora Amato sdrammatizza con umorismo, quando le è chiesto di dare un suggerimento ai giovani: «Direi loro di non prendermi sul serio!». Poi affonda: «Una ragione del matrimonio che ha retto per tanto tempo è stato il reciproco rispetto tra me e Carlo, perché l’amore non vale niente se non c’è il rispetto. Bisogna rispettare l’altro, perché l’altro ha gli stessi problemi che hai tu, ha le tue stesse angosce, ha le tue stesse esigenze. C’è una frase che dice: “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”; se si mettessero in pratica queste parole ci sarebbero molti meno problemi tra le persone». Tale concetto è espresso da Gesù Cristo nella cosiddetta regola aurea lasciata in eredità ai suoi discepoli, e mi fa pensare alla fede di Bud Spencer, che ho scoperto e raccontato nel mio libro Spaghetti con Gesù Cristo! La «teologia» di Bud Spencer (Àncora 2017).
Investigo anche sulla fede della signora Maria, conscio di entrare in uno spazio privato, ma una battuta che si fonda sulle storture umane stempera ogni possibile imbarazzo: «Io mi domando perché Gesù ci abbia creati? Ma questo è un pensiero tutto mio…». È il problema del peccato originale e personale, ragiono tra me e me, mentre il discorso della mia interlocutrice si fa serio: «C’è troppa cattiveria, troppa superficialità, mentre bisognerebbe pensare: “Mah, se sono al mondo, ci sarà un perché!”. Se c’è poca intimità, nel senso di poca vita interiore, è necessario imparare ad avere fede, a saper credere, ma è uno sforzo…». Il credo cattolico è difficile perché divino, tanto da poter essere ridotto al comandamento dell’amore: amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stessi. Una carità da mettere in pratica ogni santo giorno.
Voglio, quindi, capire com’è nato il rapporto d’amore, tanto longevo e mai sopito, con Bud Spencer: «L’incontro con Carlo è stato casuale. Devo ammettere che avevo diversi corteggiatori, ma nessuno mi piaceva oltre a un certo punto. Uscivo con un gruppo di amici molto carino, perché ci vedevamo e ci divertivamo con poco: si andava al Pincio con l’automobile (prestata dai genitori, Carlo per un certo tempo la possedeva perché faceva il rinvenditore) o con gli autobus, si organizzavano semplici feste, trovavandoci il sabato o la domenica. Un giorno un mio amico, che suonava la chitarra molto bene, mi domandò se poteva venire con un paio di ragazzi in casa mia a incidere, perché mio papà mi aveva comprato un registratore Grundig, all’epoca all’avanguardia. Pur essendo negata – non so neppure come si accede la luce! –, sono riuscita nell’impresa. Tra quei due amici, quel giorno c’era anche Carlo, il quale è entrato a far parte della nostra compagnia».
Un affetto – interrompo il racconto – cresciuto col tempo: «Sì, non è stato un colpo di fulmine né per lui né per me, ma io l’ho accettato perché era parte del gruppo, e quindi non avevo verso di lui una preventiva difesa». E poi? «E poi è stato importante, perché mi ero sentita pronta ad amare e lo ho amato per davvero». Lo stesso Bud ha lasciato scritto di sua moglie che in lei c’era qualcosa di cui lui non si poteva privare. La signora Maria mi blocca con la sua consueta gentile simpatia: «Ma lui aveva una personalità incombente! Poi mi ha amato per davvero, senza assoggettarsi a me. Insomma, non ha fatto né il fidanzato né il marito “classico”».
Per questi suoi modi e per la sua imprevedibilità, era soprannominato in famiglia “il marziano”: una volta, uscito per comprare le sigarette, era sparito per rifarsi vivo due giorni dopo, telefonando a casa, a Roma, da New York: «Gliene racconto un’altra – vengo fermato –: una sera non era ancora rincasato, quando a un certo momento sento bussare alla porta. Faccio accomodare alcune persone che mi comunicano di essere venute da Gaeta, dove mio marito ha fatto naufragio: “Suo marito ha naufragato, ma ha detto di non preoccuparsi perché ora è a Trieste e arriverà presto”. Io avevo appreso la notizia con santa ingenuità, perché se me lo avessero detto oggi mi sarei “suicidata”. Quando tornò gli chiesi conferma della cosa e lui mi disse tranquillo che effettivamente aveva naufragato».
Nel salotto di “casa Bud Spencer” intuisco come il suo padrone fosse uno spirito libero: «Se ce ne fossero molti con il suo carattere, il mondo sarebbe pieno di persone felici!». Chiedo lumi e sono subito accontentato: «Lui non aveva il senso dell’invidia, non aveva il sentimento negativo, io l’ho visto abbracciare un ragazzo per strada, andando dall’altra parte della careggiata, e quando gli ho detto: “Carlo tu lo hai abbracciato, ma ti ricordi che non ti ha pagato le cambiali? Ti rendi conto?”, lui mi ha risposto candido: “Si, ma che importa, oramai è passato!”». Un altro episodio mi è subito raccontato per rafforzare quanto fosse enorme l’umanità del mitico attore: «Quella volta abbiamo riso tutti: Giuseppe, mio figlio, aveva discusso con lui per una cosa che non ricordo, e Carlo – come si dice a Napoli – si è toccato i nervi, si è alzato e se ne è andato. Noi stavamo lì a ragionare, dispiaciuti: “Che facciamo? Andiamo a chiamarlo?”. Nel frattempo, ricompare e volevamo capire se fosse ancora in collera. Allora ci disse: “Mi sono stufato di stare arrabbiato!”. Nella nostra famiglia ce lo ripetiamo quando capita a qualcuno di innervosirsi e poi gli passa: “Mi sono stufato di stare arrabbiato…”».
In Bud Spencer c’era un “amore” che non superava quello per la famiglia, ma che ci andava vicino: con fare sornione, voglio conferme: «Beh, i motori! Non si può credere! Se io gli avessi chiesto quattro frigidaire, il giorno dopo ci sarebbero stati quattro frigidaire! Aerei, barche… qualsiasi cosa che avesse a che fare con i motori! Una volta, siamo andati a comprare un motoscafo e il venditore mi disse: “Ah, se a lei non piace, non credo che farò l’affare”. E io gli risposi: “Guardi, tranquillo, l’affare l’ha già fatto, lui ha visto il motore e già non capisce più niente!”». Una vita passata insieme, e una volta separati la mancanza può farsi sentire: «Lui è molto presente, grazie ai film – che guardo adesso con più gusto di allora –, ai giornali, alle riviste e alle lettere o alle telefonate carinissime che ricevo. Mi manca tutto e niente». La signora Maria vuole leggere un pensiero scritto da un fan e armeggia con la sua agenda.
S’illumina quando trova il passo e subito lo declama: «“Tu avevi il dono di sognare e di far sognare, il dono di far sorridere i bambini e di riunire le famiglie, di regalare la serenità. Grazie per avere preso a pugni la tristezza”. Lo trovo molto carino! Carlo aveva davvero un ottimismo innato, non nutriva rabbia e rancore verso nessuno e, come ho già detto, neppure invidia. Ha trasmesso la gioia di vivere. Non la frivola spensieratezza, ma la leggerezza». La leggerezza è stata il leit motiv di un altro “matrimonio” – mi si passi il termine – ben riuscito, quello artistico con Mario Girotti, più conosciuto come Terence Hill: «È stato anche questo qualcosa di anomalo, perché Terence già lavorava nel mondo del cinema: era il bello della situazione. Il loro incontro è stato provvidenziale: mio marito non voleva fare l’attore e fu chiamato dal regista Giuseppe Colizzi; riposi io alla telefonata che fece e gli dovetti spiegare che Carlo era ancora più grosso di quando aveva disputato le Olimpiadi di nuoto, perché non faceva più sport, ma in compenso mangiava in continuazione! Dopo aver accettato la parte a fatica (gli avevo suggerito: “Carlo è estate, non si lavora, che ti cambia?!”), non si sarebbe comunque incontrato con Terence, perché il protagonista designato era un altro. Ma questo si fece male all’ultimo e Mario era subentrato al suo posto».
La loro sintonia, una sorta di magica alchimia, è qualcosa di unico e al di là dell’ordinario: «Il loro successo rimane strano, perché per esempio il film che Carlo ha girato con Giuliano Gemma era ben fatto e ha avuto buoni ascolti, ma non ha consacrato una nuova coppia. Perché Carlo ha preso la sbandata per Terence Hill piuttosto che viceversa? Erano bravi tutti e due, ma sono convinta che il vero motivo è che sono due persone perbene e ciò conta più di ogni altra cosa. Tra loro c’era intesa, un rispetto reciproco, la mancanza d’invidia. Entrambi erano credenti e ponevano il valore della famiglia sopra a ogni cosa. Non sono stati solo colleghi, sebbene si sentissero fuori dal set molto dignitosamente, entrambi poco espansivi, riservati. Terence ha poi vissuto abbastanza in America, si è dedicato molto alla vita negli Stati Uniti, anche lavorativamente, mentre Carlo non ci pensava minimamente. Io avrei voluto spostarmi in Nordamerica, perché siamo stati a lungo a Miami e avrei voluto abitare lì, a ragione di una vita più semplice, ma per lui era impensabile stare lontano dall’ufficio di Via Archimede nell’Urbe!».
Non c’è una sola pellicola della coppia che non abbia avuto successo. Domando alla signora Maria quale le piace di più: «Beh, i primi! Ho un bel ricordo di Più forte ragazzi, perché siamo andati più volte in Sudamerica, tra l’altro Carlo ci aveva vissuto. Le persone erano molto premurose, c’era un’atmosfera diversa…». Forse, anche il modo di lavorare era differente… «… lo stile, i posti, la gente, tutto! Ho un bel ricordo… anche perché ci si ambientava in quei luoghi con gli abitanti del posto, non era l’incursione di venti giorni o un mese, ma si assorbiva la cultura, si viveva con la gente, facevi tuo il clima intorno a te».
Oggi tutto è mutato, per ciò interrogo sul mondo del cinema coi sui fasti e le sue miserie: «Ma sa che cos’è? È come tutti gli altri mondi, solo che è più appariscente, si vede di più, le persone sono più sotto i riflettori, ma sono persuasa che il bene e il male c’è ovunque». La signora Maria non ha incontrato l’ambiente del grande schermo grazie al marito Carlo, ma vi è nata e cresciuta, essendo una delle figlie di Giuseppe Vasaturo, in arte Amato, tra i più grandi produttori del cinema italiano del dopoguerra (per citarne due tra i film più famosi: La dolce vita e il primo Don Camillo): «Mio papà era un uomo molto importante: era una persona di successo, che girava il mondo, eppure è sempre stato presentissimo, molto attento. Per esempio, non mandava me o le mie sorelle da sole con l’autista, perché sapeva i possibili rischi».
Voglio sapere anche della madre: «Mia mamma era molto più complessa, era molto giovane quando mi ha avuto, aveva solo diciott’anni; la sua era una famiglia di socialisti che a quell’epoca erano in battaglia. Pur essendo un po’ insicura, è stata una madre affettuosissima, e devo dire che anche lei è stata intuitiva, perché per esempio da bambina mi ha fatto studiare il francese con un’insegnante madrelingua, una cosa che non si usava allora. È stata una buona mamma. Devo inoltre dire che sono stata fortunata, perché tanto Carlo che mio padre sono stati uomini che non hanno rispettato solo me, ma anche le donne in generale». Capisco da queste parole che il rispetto non è un’idealizzazione: «No – mi viene sottolineato –, perché uno è intelligente se è intelligente, buono se è buono, e non perché donna o uomo». Ci fermiamo un attimo, per riprendere poco dopo il dialogo: «Sono stata privilegiata per due cose: la prima per come mio padre ha mostrato attaccamento alla famiglia, pur essendo un uomo libero; e, in secondo luogo, per il suo raffinato gusto. Lui amava il bello, sotto ogni forma: paesi, mobili, viaggi, donne… tutto! Veramente ci ha educato ad amare le cose belle, anche se poi non sempre si riesce a raggiungere il bello, tuttavia l’insegnamento lasciato è che si deve tentare sempre di perseguirlo».
Non mi trattengo: il rapporto con il genero? «A un certo momento mio padre si è sentito liberato, perché con tre figlie, più mia madre e sua mamma che adorava, per un uomo del sud era un impegno. Quando, però, ha visto la serietà di Carlo ha accettato che ci sposassimo». La notorietà Bud non la deve, però, al suocero: «Mio padre è morto nel ’64, a sessant’anni: solo tre anni dopo Carlo sarebbe entrato prepotentemente nel cinema». All’epoca non era visto come un lavoro a cui dedicarsi: «Mio papà non sarebbe stato contento della sua scelta di fare l’attore; tra l’altro, quella di mio marito era una buona famiglia, perbene ed erano ricchi, molto ricchi, ma hanno perso tutto con il bombardamento al porto di Napoli nella Seconda Guerra Mondiale. Non avendo ricevuto i rimborsi di guerra si sono rimboccati le maniche: mia suocera si è messa d’ingegno ed è diventata sarta e ricamava vestiti da sera bellissimi e ha fatto un mestiere dal niente. Hanno anche cercato fortuna in Brasile, ma alla fine sono tornati in Italia, perché mio suocero ne sentiva la mancanza. Carlo aveva iniziato l’università, ma l’ha lasciata per cominciare a lavorare… la verità è che si viveva con poco, non c’era bisogno di lusso né di grandi cose, la gente si accontentava di avere un alloggio, di dove dormire, di mangiare…».
A proposito di casa, le origini della famiglia Amato, come quella Pedersoli, sono partenopee. La signora Maria si confida: «Francamente avrei voluto finire i miei giorni a Napoli, avrei voluto affittare una casa sul mare… ma i desideri non si avverano, non tutti». Napoli è nel cuore, come per Bud che diceva di essere napoletano e italiano solo in seconda battuta: «Sì – ribadisce la signora Maria –, personalmente ho vissuto molto a Roma, ci sono nata… ma Napoli! Sono di cultura napoletana!». Mi attraversa un ultimo pensiero mentre il nostro dialogo a poco a poco si spegne con garbo: è sempre un piacere tornare nella dimora che ospitò un grande attore, beniamino di milioni di persone sparse in tutto il mondo, e ospita ancora una donna straordinaria, com’è la signora Maria Amato in Pedersoli.
Fonte: Samuele Pinna | Tempi.it