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Una visione poliedrica per la libertà di educazione

In primo luogo, ringrazio cordialmente chi è intervenuto su Lisander dopo l’uscita del mio contributo sulla libertà di educazione. I testi che sono stati pubblicati mostrano un perdurante interesse per una “annosa questione” (Alfieri), una questione con la quale – più o meno tutti gli interventi concordano – continueremo ad avere a che fare anche in futuro. I testi pubblicati meriterebbero tutti una lunga e articolata riflessione, tali e tanti sono i temi che affrontano. Un compito di questa portata va però oltre i confini di una breve ripresa come questa. Mi limiterò a evidenziare alcuni aspetti emersi dal dibattito che potrebbero avere un punto di partenza per ulteriori riflessioni sul tema della libertà di educazione.

I contributi pubblicati su Lisander chiariscono il quadro storico e istituzionale entro il quale si colloca la libertà di educazione (Bertagna, Cazzola), proponendo anche approfondimenti specifici sul tema dell’autonomia scolastica (Cominelli, Debenedetti). Ci sono, inoltre, due riletture elaborate espressamente alla luce della tradizione liberale (Antiseri-Felice, Munari) e una testimonianza di esperienze e pratiche che provengono delle scuole parentali (Sermarini).

Per Bertagna, il problema che ha impedito finora l’introduzione di una reale libertà di educazione è di carattere antropologico, culturale e di mentalità, più che di carattere economico. Bertagna cita anche una riflessione di Pietro Scoppola, secondo la quale il monopolio statale nell’istruzione non solo non è equo, ma crea le condizioni per offrire un servizio non adeguato, in cui la ricerca di efficienza passa in secondo piano rispetto alle logiche corporative di coloro che operano nella scuola: il che è proprio di quello che Cazzola definisce un “sindacalismo che è insieme ideologico e corporativo”. Bertagna osserva che bisognerebbe anche cercare di riattivare nelle famiglie la passione per la responsabilità e per la libertà educativa.

Da un punto di vista proprio del pensiero liberale, Antiseri e Felice criticano il “deleterio pregiudizio stando al quale è buono solo ciò che è pubblico ed è pubblico solo ciò che è statale”: questo pregiudizio è alla base del monopolio statale nell’istruzione. Così come si configura in Italia, il sistema scolastico nega la libertà, sospende le regole fondamentali della giustizia sociale e va a detrimento della stessa efficienza della scuola. Per i due studiosi, la soluzione migliore per superare questo monopolio è l’introduzione del “buono scuola”.

Un altro tassello fondamentale per promuovere la libertà di educazione è, sottolineano Munari e Sermarini, l’abolizione del valore legale del titolo di studio (una proposta cara, ormai da tanti anni, anche allo stesso Antiseri). Queste proposte si inseriscono nella cornice di una “una concezione sussidiaria dello Stato” (Cazzola) nella quale le scuole, dando attuazione reale del principio dell’autonomia, possono elaborare e proporre alle famiglie e alla società civile progetti educativi alternativi.

Il principio dell’autonomia scolastica è al centro della riflessione di Cominelli che ricostruisce i (pochi) slanci in avanti e le (tante) frenate che abbiamo conosciuto in Italia. Già nel 1990 Sabino Cassese, nella Conferenza Nazionale della scuola, tracciava i contorni di un quadro istituzionale in cui la scuola, sintetizza Cominelli, fosse “una funzione della società civile, non un’articolazione dell’Amministrazione dello Stato”. Come dimostra la vicenda della incompiuta implementazione delle leggi sulla Autonomia scolastica e sulla Parità scolastica, che erano state introdotte grazie al lavoro competente e caparbio di Luigi Berlinguer, in Italia il paradigma statalista è difficile da scalfire.

Anche per questo, Franco Debenedetti propone, con una formula molto efficace, la “sperimentazione di una rivoluzione, da introdurre gradualmente: senza però confondere gradualità con esitazione ed incertezza”. Il principio cardine di questa rivoluzione è semplice: “i fondi seguano gli studenti: saranno le scelte delle famiglie a finanziare le scuole”. Modelli di riferimento potrebbero essere le Charter School presenti negli Stati Uniti, e le Grant Maintained School operative in Inghilterra e Galles tra il 1988 e il 1998. Solo una commistione tra libertà di educazione, autonomia economica e progettuale, può dare vita a una scuola di qualità, che sia capace di preparare i giovani alle sfide della società della conoscenza.

Fonte: Paolo Terenzi | Lisandermag.substack.com

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