«Ci sono molti che studiano fisica perché gli riesce facile ma la fisica per loro è spesso solo un mezzo per far soldi in altri ambiti. Io non sono così bravo, devo faticare tanto, però non ho scelto la fisica per fare altro, ma per continuare a interrogarmi sul senso delle cose». Così mi ha detto un ex-alunno che è venuto a trovarmi, raccontandomi di aver appena ottenuto un dottorato di ricerca in fisica teorica in una prestigiosa università internazionale e confidandomi il suo sogno per il futuro. Questo incontro, avvenuto in giorni scolasticamente faticosi, mi ha dato una gioia particolare: veder la luce di una vocazione in cui abbiamo creduto quando lui aveva 17-18 anni, mi ha confortato sul valore di un mestiere divenuto sempre più difficile proprio per la difficoltà di ascoltare le singole vite. In questi mesi, dopo l’uscita del nuovo libro, ho incontrato centinaia di persone. Diversi sono giovani che si preparano con slancio a diventare insegnanti, ma sono già delusi da un sistema che mina l’essenza della professione: come posso far fiorire la vita di altri se la mia non viene rispettata? Quando chiedevo loro: come hai scelto questa strada? Tutti attribuivano la loro vocazione a qualcuno che li aveva presi sul serio durante il percorso scolastico. E così mi sono ricordato di alcuni Maestri che mi hanno aiutato a scoprire la mia. Seppur molto diversi hanno in comune qualcosa. Che cosa?
La maestra Gabriella all’asilo. Anni in cui giocare e imparare erano tutt’uno, l’immaginazione era il motore dell’intelligenza, il sapere era scoprire e inventare. Il giorno più bello era quello del pongo, la plastilina degli anni ‘80 che rimaneva sotto le unghie per mesi. Costruivamo astronavi e protagonisti di avventure che terminavano sempre in una unica grande massa marrone. Sapevamo che la storia doveva essere memorabile, perché avrebbe fatto la fine irreversibile dell’entropia. La maestra Gabriella, a cui mando un augurio per le sue condizioni di salute, incoraggiava la nostra capacità creativa, ma la disciplinava con obiettivi precisi: da lei ho imparato che le regole non sono una fregatura ma limiti entro i quali la creatività non si disperde, come i versi per un poeta, la scala per un musicista, il marmo per uno scultore. È il dialogo con la realtà, l’umiltà di fronte al limite e l’obbedienza alle cose che permette all’immaginazione di vedervi infinite possibilità. E poi mi insegnò in anticipo a leggere, perché lo desideravo. Mi aveva preso sul serio.
Poi è arrivata la maestra Russo: si usava il cognome, eravamo approdati alle elementari. Insegnante di lungo corso, ci guidava con fermezza e grazia. Da lei ho imparato a scrivere e a far di conto, ma soprattutto a far di racconto. Non stavo mai zitto, nella pagella scriveva sempre: «chiacchiera troppo», ma mi aiutò a disciplinare quel «talento» scomposto. Anche lei mi prese sul serio: mi faceva raccontare le storie che inventavo. Mi ispiravo ai cartelloni delle lettere appesi alle pareti: farfalla, gnomo, ciliegie… I racconti nascevano dai legami segreti tra quelle figure: che cosa facevano quando la scuola era vuota, nottetempo. La prima storia che inventai narrava infatti di uno «Gnomo» invidioso di una «Farfalla»: lui va sempre in miniera a lavorare e vive al buio, mentre lei gode di altezze, profumi e luce. Per invidia prende il «Coltello» e decide di impadronirsi delle ali della farfalla… È una storia che conteneva già la domanda che mi assilla da allora: perché le cose belle devono finire? La maestra Russo in terza andò via, per sempre… e fu sostituita da maestre ben diverse. E così mi trovai a vivere proprio quella domanda: perché le cose belle finiscono?
Fu la volta del professor Viola: italiano alle medie. Giovane e rigoroso. A lui devo la mia passione per la scrittura. Ci faceva leggere storie che poi dovevamo imitare, racconti da riscrivere o re-inventare. Un giorno fece leggere ai miei genitori una di quelle storie in forma di novella medievale. Ero felice: degli adulti apprezzavano il mio modo di essere. Di lui ricordo anche la capacità di farci appassionare alle tre analisi: grammaticale, logica e del periodo. Ci divertivamo mettendo in ordine il caos del mondo con l’ordine delle parole: l’amore per la grammatica è amore per il mondo. E in terza media ci iniziò anche alle fatiche del latino, in anticipo. Ci prendeva sul serio.
Poi incontrai il professor Franchina, italiano alle superiori. A lui devo il fascino per l’analisi letteraria, toccava le pieghe di un testo come fosse la carne della vita. Poteva sostare su una poesia per settimane e non era assillato dal programma, tanto che cominciammo a studiare alcuni autori del ‘900 sin dal primo anno, di pari passo con la normale cronologia della storia della letteratura. Quella libertà mi colpì. Le interrogazioni non gli servivano a scoprire che cosa non sapessimo, ma ad ascoltare che cosa avessimo scoperto. Un giorno mi prestò il suo libro di poesie preferito, imponendomi la lettura in due settimane. Quell’esperienza mise le ali alla mia mente e al mio cuore: un atto di fiducia che è valso parte della mia vocazione. Mi aveva preso sul serio.
Ci sarebbero altri Maestri, ma mi basta citare questi per scorgere che cosa li accomuna: avermi preso sul serio senza farmi sconti, avere intercettato e allenato una voce esile facendola diventare vocazione, essere stati rigorosi e teneri al tempo stesso: non seduttori ma conduttori, non complici ma mentori. Nell’Odissea è Atena che ha questo ruolo: dà avvio alla trama del poema, andando subito a Itaca a svegliare il figlio di Ulisse, Telemaco, perché si metta in cerca del padre invece di lamentarsi. Ma lo fa scegliendo di assumere l’aspetto di Mentore, un caro amico di Ulisse, rimasto a lui fedele. Il suo nome, Mentore, divenuto poi per antonomasia il modo di indicare una guida, significa dare energia alla mente, essere fonte di ispirazione. Questo è un Maestro, il divino fuori di noi che risveglia il divino in noi, mette in moto la trama del nostro poema: non c’è eroe senza mentore. Per questo io oggi vorrei ringraziare questi mentori (e quelli di cui per motivi di spazio non ho parlato) con le parole finali della tesi in fisica teorica del mio ex-alunno: «Questa idea è affidata al futuro, quando forse chi verrà dopo riterrà sorprendente che, per così tanto tempo, abbiamo brancolato nel buio». I Maestri hanno un’idea di futuro: il nostro nome. E se oggi manifestassimo un po’ di gratitudine ad almeno uno di loro?
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it