La vicenda di Giulia Cecchettin, insieme alle risposte inadeguate che ha suscitato, è una grande radiografia della nostra crisi. Una proposta per uscirne
La vicenda di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta è una sorta di carotaggio nel terreno delle nostre relazioni affettive, che nessuno ha mai educato e che risultano difficili da sempre, non solo oggi, se all’inizio del Novecento Rainer Maria Rilke scriveva: “L’amore è una cosa difficile, più di tutte le altre”. Oggi piuttosto nodi secolari e millenari per motivi storici vengono a un dunque, aggravati da un contesto inedito.
Il nucleo più profondo del nostro carotaggio è con molta probabilità una struttura psicologica di tipo abbandonico, databile attorno ai primi mille giorni circa di vita di un bambino, e che la decisione di Giulia di lasciare Filippo ha – senza poterlo né sapere, né immaginare – riattualizzato. Due le possibili responsabilità: la prima di natura affettiva e conseguentemente psicologica, la seconda d’ordine legislativo. Nella mia esperienza scolastica è più che esiguo il numero dei genitori che riesce a stare di fronte a un certo tipo di difficoltà dei figli, perché inconsciamente ripropone come in uno specchio la loro, sulla quale però gravano sistemi di difesa così difficilmente valicabili, che gli stessi soggetti sanitari sono costretti a dire o scrivere solo tra le righe le diagnosi a carico di bambini e adolescenti. Inoltre il contesto legislativo italiano non tutela i primi mille giorni di vita del bambino, periodo in cui la struttura affettiva inizia ad articolarsi per poi sostanzialmente definirsi entro il primo settennio, e sulla quale deve invece poter convergere l’impegno di entrambi i genitori, quello della madre a tutela del figlio e quello del padre a supporto e tutela di figlio e madre. Generalmente si discute su come moltiplicare gli asili nido per garantire il lavoro delle madri, non invece di come garantire l’infanzia senza compromettere l’attività lavorativa delle madri (congedi parentali, aspettative, part-time, smart working, detassazioni, riduzione del divario retributivo ecc.). Questo significa che tutti i bambini, che abbiano sofferto un più o meno conclamato abbandono, arrivino a uccidere? No.
Talvolta, crescendo, i ragazzi si inseriscono in contesti educativi ispirati a una sana antropologia (valore dell’altro, rispetto dell’altro, dignità intangibile dell’altro ecc.), che compensano sul piano culturale difficoltà di tipo affettivo. Però, come ha segnalato il parroco di Torreglia, Filippo non diversamente da tutti i suoi coetanei ha lasciato questo possibile contesto dopo la Cresima, cioè all’imbocco dell’adolescenza. Qui si apre la responsabilità di tutti i soggetti educativi extrascolastici, in particolare sportivi e religiosi.
I primi hanno una limitata capacità culturale, ma un’essenziale capacità formativa: come la utilizzano? I secondi, per natura e storia, sono sbilanciati a favore dell’uomo e a sfavore della donna (non è necessario ricorrere all’Iran degli ayatollah per capirlo). In Italia l’unica eccezione potrebbe essere costituita dalla Chiesa cattolica, che però oggi è chiamata a decidere, a livello generale, se proporsi come struttura religiosa o come luogo di fede, e a livello locale se, tra le sproporzionate incombenze che gravano sui parroci, quella educativa possa essere la priorità, demandando il resto ad altri. Allora, tutti i ragazzi che non abbiano vissuto un’esperienza educativa extrascolastica positiva possono uccidere? No.
È essenziale il ruolo della scuola. Su questo, però, normalmente i genitori fanno fatica a comprendere che, se il compito istruttivo può essere preso interamente in carico dalla scuola, sul compito educativo devono invece convergere gli sforzi di famiglia e scuola in quest’ordine, e non il contrario. Avendo la maturazione umana un sostrato interamente affettivo, quand’anche la scuola svolgesse al meglio il proprio ruolo, garantirebbe comunque un impegno solo parziale rispetto al necessario: la scuola non può assumersi per natura, non per cattiva volontà, l’interezza di un ruolo, su cui deve aprirsi lo spazio di responsabilità specificamente educativa, non solo affettiva, della famiglia.
La responsabilità scolastica, invece, consiste a mio avviso nel comprendere – agendo poi di conseguenza –, che i ragazzi non sono teste che elaborano informazioni, ma persone con una razionalità e un’affettività costantemente in gioco già in fase di apprendimento. Finché la scuola non farà questo passaggio di consapevolezza, anche il demandare al ruolo scolastico l’educazione relazionale-affettiva è a mio avviso inopportuno, non solo perché il compito scolastico attualmente è altro (garantire l’offerta formativa curricolare enunciata nei Piani triennali), ma perché in quest’ambito non può essere la scuola il primo soggetto educativo (questo non significa che la scuola non possa e non debba aprire spazi scolastici extracurricolari, perché chi ha competenze per garantire questo tipo di educazione possa farlo a integrazione dell’offerta formativa e nella libertà delle famiglie di aderire o meno alla proposta). Allora, tutti i ragazzi che non abbiano avuto un’esperienza scolastica altamente formativa possono uccidere? No.
Il quadro affettivo fin qui stratificato si inserisce in responsabilità di tipo preventivo e medico. Nel caso di Filippo sono mancate sia la responsabilità preventiva, che a mio avviso deve essere in carico alla competenza educativa, come ha dimostrato solo due giorni fa l’iniziativa di una mamma di Marsala, sia quella diagnostico-terapeutica, se è vero che Filippo è stato sì valutato in sede psicoterapeutica, ma non in maniera efficace.
Infine, le biografie affettive dei singoli si inseriscono in responsabilità di tipo culturale, tecnologico, informativo e politico. La responsabilità culturale fa capo in parte a un maschilismo più e meno resiliente, se è vero che in Italia l’ultima società matriarcale è quella etrusca (parliamo di 3-2mila anni fa) e che ancora nel 2022 quasi 45mila madri si sono dimesse dall’impiego (il 63,6% per l’impossibilità di conciliare occupazione e cura dei figli). Ma più in profondità la responsabilità culturale fa capo a una scissione più che bimillenaria tra cognizione-emozione, mente-affetti, ragione-sentimenti, razionalità-passioni, sapere-sentire, e più in profondità ancora a una concezione antropologica non relazionale, bensì disequilibrata tra due forze differenti, quella fisica maschile e quella spirituale femminile, che invece devono potersi integrare. La responsabilità tecnologica ha proporzioni enormi, che perlopiù non vengono comprese, e la ferma e indiscutibile tutela dei minori in quest’ambito dovrebbe essere nell’agenda di tutte le politiche mondiali. Sulla responsabilità informativa gravano modalità, linguaggi e scopi, con cui le testate giornalistiche fanno spesso informazione, che invece, se gestita con etica, potrebbe avere grande incidenza su un possibile cambiamento di mentalità. Quanto alla responsabilità politica lo Stato non può pensare di risolvere un problema di questa portata. Deve farlo l’intera società civile, ciascuno nel proprio ruolo, nel proprio ambito, passo dopo passo, azione dopo azione. Ciò che invece lo Stato potrebbe e dovrebbe fare è riconoscere, sostenere, favorire e incentivare ogni impegno positivo che venga dalla società.
In sintesi su Filippo si sono concentrate responsabilità storiche e attuali di tutti. In questi casi lo spazio di libertà personale, che decide se uccidere o no, si assottiglia molto. Questo non significa che Filippo non sia stato ultimamente libero di non uccidere. Significa piuttosto che a suo specifico carico c’è proprio quest’ultimo spazio di libertà che lui ha utilizzato nella direzione più drammatica.
Cosa si può fare, allora? Tutto, direi. Contestualmente ad azioni a più lungo respiro, da concertare sulla base non di onde emotive, ma di riflessioni approfondite, si possono innanzitutto ipotizzare azioni a brevissimo termine e a costo zero, su cui quindi nessuno possa ammantare alibi. Ad esempio tutti, sommersi ovunque dalla pubblicità, possiamo far caso ai marchi che associano la vendita di un prodotto al corpo femminile e decidere di non acquistare quel prodotto. Le aziende possono posticipare di mezz’ora la giornata lavorativa, permettendo ai padri di accompagnare a scuola i figli; oppure concordare a fronte dello stesso stipendio, meno ore di lavoro settimanali per conciliare vita-lavoro. Gli organi d’informazione possono vigilare eticamente sui propri scopi e linguaggi, oppure pubblicare esempi di buone prassi. Il legislatore può mettere mano a una proposta di tutela dei primi mille giorni di vita del bambino. L’Ordine degli psicologi può fornire al mondo educativo l’elenco dei campanelli d’allarme che costituiscono materia di prevenzione. Tutti i genitori possono impedire ai figli l’uso, specie se indiscriminato, dello smartphone fino ad almeno i 13 anni e vigilare sull’uso della rete. Le famiglie possono fare una semplice valutazione del clima affettivo interno e decidere se farsi accompagnare. Lo Stato può detassare sia il ricorso a valutazioni di tipo psicologico sia, laddove possibile, formule di lavoro alternative alle abituali. L’elenco può allungarsi a propria discrezione con esiti valutabili già in breve tempo.
Per tutti coloro che hanno competenze educative specifiche, invece, si apre un capitolo a parte. Personalmente, dopo essere stata coinvolta già nel 2015 nella valutazione di materiale scolastico di provenienza olandese a eventuale uso di scuole di Stato in una Provincia italiana, l’ho affrontato in Imparare ad amare. Educazione affettiva per l’età scolare: Adolescenza, alla base di un approccio all’educazione relazionale-affettiva, basato su un superamento dell’opposizione ragione-affetti e su una concezione antropologica relazionale, pensato sia per i ragazzi, sia per i genitori, sia in stretto raccordo con i curricoli scolastici (estesamente.it).
Fonte: Manuela Cervi | IlSussidiario.net