Voglio fare l’astronauta. La stragrande maggioranza dei bambini, da Gagarin in poi, s’è fermata al dire. Luca Parmitano, nel 2019 primo italiano al comando della Stazione spaziale internazionale, lo ha detto e lo ha fatto, lasciando passare trent’anni e la differenza che corre tra la fantasia e la realtà.
Ricorda la prima volta in cui lo ha detto?
«Avevo 3-4 anni, alla prima lezione di nuoto l’insegnante per rompere il ghiaccio chiese a ciascuno: “Che cosa vuoi fare da grande?”. Ho detto l’astronauta, con la consapevolezza con cui avrei potuto dire l’Uomo Ragno. Era l’inizio degli anni Ottanta, con mio fratello guardavo i cartoni animati giapponesi: avventure spaziali, robot, astronavi. Pensavo che gli uomini fossero stabilmente sulla luna come i miei lego preferiti».
Quando ha capito che lo avrebbe fatto davvero?
«Circa trent’anni dopo quando, dopo un anno di selezione, un direttore dell’Agenzia spaziale europea mi chiamò e mi chiese se fossi interessato ad andare a Parigi di lì a tre giorni per essere presentato come astronauta dell’Esa».
Sei selezionati su oltre 8.400…
«In base alla mia esperienza di selezionatore, vorrei sfatare l’idea che gli astronauti siano gente fuori dal comune. Sono persone normali con un trascorso di vita operativa e personale che le rende molto flessibili e rapide nell’apprendimento e nell’adattarsi a stili di vita diversi. L’astronauta è uno che ha dimestichezza con l’incertezza».
Con quali sentimenti si parte per lo spazio?
«Parlo per me: durante l’addestramento sugli aspetti specifici di una missione siamo così immersi nel quotidiano che è difficile soffermarsi sul significato più grande, prevale la voglia di essere ciascuno rilevante. In orbita ogni dettaglio pesa: se siamo responsabili della preparazione degli scafandri dei colleghi che vanno a fare una cosiddetta “passeggiata spaziale” la loro vita è nelle nostre mani. L’aspetto più complesso per me è riuscire a sentirsi rilevanti anche dopo, tra una missione e l’altra e quando si lavora sulla Terra».
Durante una “passeggiata” rischiò di affogare per acqua nel casco, che cosa ha imparato di sé?
«Fare un’esperienza senza evolvere è un’occasione sprecata. Ho appreso di me stesso che gli insegnamenti ricevuti funzionano e che io sono in grado in una situazione di estrema emergenza di affrontarla concentrandomi non sul problema, ma sulla soluzione».
Che cosa sono il coraggio e la paura?
«Ho un percorso molto operativo: pilota caccia dell’Aeronautica Militare, poi pilota collaudatore e sperimentatore, per me la paura è intimamente legata alla non conoscenza. Come tutti gli animali siamo geneticamente predisposti a temere l’ignoto: un meccanismo evolutivo che ci salva la vita. La conoscenza è l’antidoto alla paura. La mia definizione di coraggio, invece, non è l’assenza di paura, ma la capacità di agire nel modo che si ritiene corretto e necessario nonostante la paura».
Il suo lavoro cambia la prospettiva umana su spazio, tempo e gravità?
«Per quanto mi riguarda la allarga ma non la cambia, restiamo esseri umani». Che cosa ha notato del mondo vedendolo da fuori? «Nei sei anni passati tra la prima e la seconda missione ho documentato l’intensificarsi dei fenomeni atmosferici legati al riscaldamento globale, resta con me è il senso di responsabilità per il nostro pianeta che cambia a causa nostra».
Perché vogliamo superare le colonne d’Ercole?
«Credo sia un misto di curiosità, sete di conoscenza e istinto di sopravvivenza. L’essere umano è l’unico animale capace di farsi domande di senso e di cercare risposte. Poi c’è un aspetto evolutivo: come tutti gli esseri anche l’uomo cerca di allargare la propria presenza ed esplora per trovare altrove le risorse che si esauriscono. La luna, gli asteroidi, gli altri pianeti non sono ambienti che al momento si possa pensare di colonizzare, ma siamo sicuramente in grado di agire per utilizzare le risorse pressoché infinite che ci sono nell’universo».
Che rapporto c’è tra scienza e fantascienza?
«Sono divise da una membrana permeabile, c’è una continua osmosi. Quella che un tempo era fantascienza col tempo è diventata scienza e la nuova conoscenza dà ispirazione agli autori di fantascienza per creare nuovi mondi». Una volta astronauti la componente scientifica uccide il chiaro di luna? «Ho una visione piuttosto romantica della vita, è importante che ciascuno di noi si prenda la responsabilità di coltivare il sogno e non lasciare che si appiattisca».
Attualmente Luca Parmitano, 47 anni, è Liaison Officer dell’Esa al Johnson Space Center della Nasa a Houston, Texas. Intervista realizzata in occasione della sua partecipazione a Bergamoscienza (FC 41/23)
Fonte: Elisa Chiari | FamigliaCristiana.it