«Ma come si fa ad accendere la GoPro in un momento così?», è una domanda lecita che però trascura un dato di realtà. Indagine sullo strano vagito di coscienza di chi cerca un riscontro social alla propria urgenza
Erano circa le 16.30 di venerdì 8 dicembre quando Matteo Mariotti si è tuffato nel mare da sogno dell’Australia, spiaggia 1770 del Queensland. Una telefonata da casa, poco prima, gli aveva annunciato la scomparsa del nonno. Voleva un momento di serenità, ma in acqua ha rischiato di morire perché poco dopo il tuffo è stato attaccato da uno squalo.
Matteo Mariotti, lo squalo e la GoPro
La notizia si è guadagnata titoli epici e Matteo è stato il miglior cronista di se stesso. Ricoverato all’ospedale di Brisbane, dove gli è stata amputata una gamba sotto il ginocchio, ha condiviso da sopravvissuto la sua storia terribile ma non tragica. Ai giornalisti di mestiere è rimasta solo l’incombenza di qualche pennellata di cornice. Dopo il diploma alberghiero, il 20enne Matteo Mariotti ha lasciato Parma per l’Australia col sogno di diventare biologo marino.
Il vero contenuto bomba è arrivato dal diretto interessato, perché dopo il terzo morso dello squalo Matteo ha acceso la sua GoPro e filmato tutto quel che ne è seguito. Il video è stato postato sul suo profilo Instagram qualche giorno dopo l’assalto, cioè mentre in ospedale viveva l’esperienza di un’amputazione. Sono immagini accessibili a tutti e mostrano la nuotata concitata di Matteo che scappa dallo squalo, poi l’approdo a riva dove un amico lo soccorre senza tacere una pesante sgridata.
La telecamera è verosimilmente attaccata al polso, ci sono momenti confusi in cui l’inquadratura si perde nell’acqua o nel cielo ma ci sono momenti in cui il soggetto che registra è capace di tenerla centrata su di sé. Ed è un soggetto filmante di cui si vede un arto inerte, un piede tranciato quasi di netto, sangue a profusione. Grida aiuto tra i singhiozzi, e a tratti orienta la telecamera su di sé.
La condivisione egocentrata è un bene di prima necessità
In uno dei primi commenti sotto il video si legge: «Ma come può venire in mente, nel momento in cui si viene attaccati da uno squalo, di accendere la telecamera?». La domanda è lecita, ma è più formale che sostanziale. È ancora spontaneo pensarla, ma trascura un dato di realtà forse amaro eppure concreto quanto i denti dello squalo. Rubando l’immagine a Darwin, oggi un ragazzo di vent’anni è come la giraffa che ha già acquisito il tratto ereditario del collo lungo. Nasce e vive integrato alla telecamera del telefono, in un mondo che non da ieri fa della condivisione egocentrata un bene di prima necessità, dagli affari all’intrattenimento.
Dunque è reale l’attacco dello squalo ed è istintiva la mossa della mano che stringe la telecamera perché quel frammento di vissuto possa diventare condivisibile, ritwittabile, commentabile. Non è più un passaggio forzato cliccare sul tasto di registrazione in modalità selfie. Reel ergo sum. È uno strano vagito di coscienza. Qualcosa preme per accendersi davvero, accendendo la telecamera. Il clic è tutt’uno col dire: accade qualcosa.
«Ed io che son?». Una storia che vale la pena raccontare
Possiamo storcere il naso perché non siamo più come Leopardi a cui bastava stare in contemplazione della luna per accendere la coscienza. Oggi è più lunga la via per arrivare a quel grado d’intensità con il presente esperienziale e passa dall’impulso meccanico di accendere uno strumento. Dietro, lontanissimo, c’è sempre quel sussurro «ed io che son?», e patisce la tentazione – diventato handicap collettivo – di avere un riscontro social all’urgenza: sono una storia che vale la pena raccontare.
Non possiamo censurare questo passaggio intermedio che fa parte dell’attuale consuetudine, possiamo ricordarci che esiste una versione originale dell’assunto precedente: che io ci sia è un miracolo. E poi adoperarci per ricondurre a questa via maestra i sentieri laterali che naufragano nella mera visibilità.
Cosa c’è dopo l’impulso del clic
Però, la coda davvero velenosa della vita che si fa reality show è dopo l’impulso del clic. A distanza di ventiquattr’ore i follower di Matteo Mariotti sono passati da quasi novemila a più di diciassettemila, cresceranno esponenzialmente ancora per un po’ e poi – se la crescita del suo profilo social sarà tra le sue priorità – dovrà dare in pasto altri assaggi al pubblico. E questo implica non solo contenuti potenti al punto di diventare virali, ma anche mirate scelte narrative per lanciare i contenuti.
Nel momento più drammatico della sua vicenda Mariotti è stato capace di aprire le fauci dello squalo per recuperare il pezzo maciullato della sua gamba. Non è da tutti, è stato lucido e audace. Quel mortale contatto ravvicinato l’ha portato a chiamare “mostro” l’animale che l’ha aggredito. Tra gli spettatori e potenziali follower non pochi hanno commentato: non puoi chiamarlo mostro, era nel suo ambiente naturale e tu sei andato a disturbarlo.
Nel contenuto Instagram successivo, Matteo Mariotti – sempre dalla degenza ospedaliera – ha condiviso una carrellata di selfie e paradisi australiani, chiosando: «Non sono per nulla arrabbiato con questo posto né tanto meno con gli squali». Poi due emoji: un cuoricino e uno squalo. Possibile che anche dopo aver lottato con le mascelle feroci di un killer dei mari, sia più forte il morso dei leoni da tastiera e s’impari in fretta la lezione di dar loro in pasto contenuti reali con una voce addomesticata dalla logica dei like?
Fonte: Annalisa Teggi | Tempi.it