Con la consueta lucidità Sergio Belardinelli constata una situazione a cui non eravamo preparati o, meglio, una situazione riguardo alla quale da decenni abbiamo chiuso gli occhi, sperando, forse, che si trattasse di qualcosa di passeggero e comunque di una tendenza destinata, come infinite altre, a esaurirsi nel breve periodo: «statue, quadri, opere letterarie vengono ovunque rimossi o messi all’indice; eminenti uomini politici, filosofi, scrittori, artisti o imprenditori filantropi del passato vengono giudicati secondo un criterio che non si cura minimamente del contesto storico in cui essi sono vissuti, ma si basa soltanto sulla sensibilità morale e culturale di coloro che giudicano. Potremmo anche dire che siamo di fronte all’espressione di una volontà che non riconosce altro limite che se stessa».
La nostra, come si sa, è un’epoca che non conosce né riconosce limiti. Troppo spesso – come scrisse Friedrich von Hayek (2023) – si è lasciata inoltre guidare e si lascia lusingare dall’idea di poter e di dover cambiare il mondo sulla base dei valori e del sentire non soltanto di un hayekiano “razionalismo costruttivistico”, ma anche di un hegeliano “intelletto astratto”, che talora travalica nel fanatismo e che non si preoccupa delle sue conseguenze.
E così, oggi ci si trova di fronte alla apparentemente inarrestabile credenza che i presupposti culturali sui quali era sorta e si è sviluppata la civiltà occidentale debbano essere messi radicalmente in discussione e rigettati. Quel che è anche peggio, ciò accade senza che si intraveda qualcosa che possa fungere da fondamento per affrontare i problemi che indubbiamente pone la globalizzazione e, con essa, la fine della credenza che quello occidentale fosse un modello destinato ad imporsi universalmente. Un modello che non consisteva soltanto nell’economia di mercato, ma anche e soprattutto in quella cultura umanistica nella quale, a dire il vero non senza tensioni, confluivano quelle componenti laiche e cristiane che avevano forgiato la civiltà occidentale e della quale la dimensione artistica e letteraria rappresentava, insieme all’idea di tolleranza figlia della libertà (economica e di pensiero), uno dei cardini. Il suo vero “valore universale”.
È ben noto, e per certi versi anche accettato, che, in uno conato di autolegittimazione, i vincitori (comunque abbiano vinto) hanno la presunzione di riscrivere la storia. E tuttavia, nel caso della cancel culture viene anche da chiedersi sia di quale vittoria siano figli coloro i quali vorrebbero non soltanto riconoscere gli errori e le storture del passato della civiltà occidentale e fare pubblica ammenda, sia, e soprattutto, quale modello alternativo abbiano in mente. Verrebbe anche da dire che, per certi versi, la situazione attuale ricorda quella di qualche decennio fa in cui miriadi di pensatori di diversa estrazione si scagliavano contro le liberal-democrazie occidentali e il sistema di mercato illudendosi che esistesse una più che valida e giusta alternativa identificata in un evanescente modello di economia socialista emendato dagli “errori” coi quali nei paesi del “socialismo reale” si era cercato di realizzare quel regime politico che esisteva soltanto nei loro sogni. Trascurando, più o meno consapevolmente, il fatto che si trattava certamente di “errori”, ma soprattutto degli esiti prevedibili della sostituzione del modello incentrato sulla libertà e sulla responsabilità individuale con un astratto modello di stampo comunitario in cui la pianificazione economica avrebbe realizzato la “giustizia sociale”. Una sorta di soluzione politica ed etica del problema economico.
A ben guardare, la situazione attuale è ancor più grave. Quegli utopisti, tra i quali non mancavano stolti e ingenui, un progetto, per quanto fumoso, comunque l’avevano. Nelle forme in cui si mostra la cancel culture, invece, non si intravede nessun progetto alternativo diverso da quello di estirpare i “classici” e di sostituire la loro esperienza e i loro criteri di giudizio con i valori (spacciati per universali e, di conseguenza perenni) che in un determinato momento e in un determinato luogo vengono condivisi e si affermano nel seno di minoranze organizzate ispirate da criteri di eticità soggetti anch’essi ad una transitorietà accidentale. E questo rende la cancel culture ancor più insidiosa: lascia pensare che sia non tanto una variante, interna alla cultura occidentale, che nelle forme e con le modalità della comunicazione social moderna si limita a mettere in evidenza le storture di quella civiltà, quando invece, e in realtà, di una forma di rigetto dei suoi presupposti umanistici. Presupposti che, una volta cancellati, finirebbero per rendere impossibile non soltanto la vitalità dell’Occidente, ma pure la convivenza civile e pacifica all’interno delle società occidentali. È infatti, e purtroppo, impensabile che la brutale radicalità con la quale la cancel culture avanza le sue rivendicazioni non possa favorire la nascita di una reazione che potrebbe essere altrettanto brutale. Un disastro che nessun essere umano assennato si augura, ma anche una possibilità sulla quale non bisogna chiudere gli occhi.
Fino a qualche decennio fa era molto di moda l’espressione “storicizzare”. Se la si applica alla situazione di cui si sta parlando, nella sua versione soft significava che, poiché la storia non è un progresso “verso il meglio” e poiché la conoscenza che induce gli esseri umani ad agire è limitata e fallibile, il passato è un complesso insieme di avvenimenti che vengono continuamente reinterpretati e nei quali il legittimo desiderio di migliorare le situazioni individuali e sociali si mischia e talora si confonde con errori, miserie ed anche turpitudini di ogni tipo che non bisogna dimenticare – soprattutto per evitare di ripeterli. Da questo punto di vista, l’attuale tendenza a rimuovere e a seppellire sotto una coltre di ignominia, tutto ciò che non è contemplato dal sentimento morale nel quale ci si riconosce, appare un qualcosa di ingiustificabile: significa estendere indebitamente gli attuali parametri di valutazione ad un passato che non ne aveva neanche sentore. A pensare, in definitiva, che nella storia debba trovar posto soltanto ciò che ci piace, e soprattutto che bisogna darle un senso che corrisponda ai valori di quella che rimane comunque una parte della società in cui viviamo. E, per di più, che quei valori debbano essere imposti – anche accusando chi legittimamente non li condivide – di essere un essere moralmente abietto, al quale non si riconosce neanche il “diritto di tribuna” e che deve essere perciò posto ai margini dello “spazio pubblico”. Questo significa non rendersi conto che, in realtà, la società è il risultato di un processo evolutivo, sovente inintenzionale, complesso e anche contraddittorio in cui il bene è non poche volte l’involontario figlio del modo in cui errori, vizi, viltà e turpitudini si sono mischiati ad azioni e a ideali nobili e lungimiranti. Si trascura, in tal modo, che la storia è fatta sia da furfanti, sia da sognatori, sia da filantropi.
Da questo punto di vista, avrei poco da aggiungere a quanto messo in evidenza da Belardinelli con le sue pacate ma acute considerazioni tra le quali non voglio dimenticare quelle sull’ “emotivismo identitario”, sul ruolo che l’idea di verità riveste nelle società democratiche, sul fatto che «ci siamo erroneamente convinti che un’opinione valga l’altra» diventando così “relativisti” anche perché convinti «che questo sia il modo migliore per essere tolleranti», sulla «cultura liberal politicamente corretta che pretenda di ridarsi un contegno e di riaffermare la propria superiorità morale» nella «battaglia culturale contro la menzogna e la disinformazione, condotta in modo così radicale da far pensare che abbiano diritto di circolazione soltanto le notizie vere», e, quindi, sul fatto che «in una società liberale è molto meglio che una bufala possa circolare liberamente, piuttosto che vi sia un ministero della verità che stabilisce quali sono le notizie che hanno diritto di circolazione».
È vero che, come scrive Deirdre McCloskey (2023), ci troviamo di fronte ad un ampio ed articolato tentativo di far dimenticare tutte le grandi realizzazioni – non soltanto economiche – della civiltà liberale di cui dovremmo invece essere orgogliosi. Si tratta di un proposito al quale non possiamo restare insensibili e che richiede un’opposizione vigile, attiva e radicalmente diversa da quella con la quale – con argomentazioni d’antan – troppo spesso sono state difese l’economia di mercato e le sue realizzazioni nel campo della politica, della riduzione della miseria e dei diritti. Alla cancel culture e all’ipocrisia del politically correct non si può reagire con una deprecazione eticamente e politicamente nostalgica. Ed è anche vero che, per quanto nel passato i rapporti siano stati tumultuosi, difficili e caratterizzati da reciproche incomprensioni, la crisi delle Chiese cristiane occidentali, e la trasfigurazione del sentimento religioso (cfr. Fabris 2023), hanno fatto sì che quel nucleo propulsore della vitalità dell’Occidente sia entrato in crisi. Che la funzione di moderatrice delle aspettative individuali e sociali che, sia pure inconsapevolmente, la Chiesa e la politica avevano esercitato per secoli non sia più proponibile perché si formano, si affermano e si impongono al di fuori dello spazio delle loro reciproche competenze. Tuttavia, anche se purtroppo la Chiesa non cessa di avere e di mostrare un risentimento nei confronti della civiltà liberale e dell’economia di mercato, occorre guardare in avanti. E questo significa immaginare un progetto culturale nel quale le reciproche incomprensioni vengano esaminate e valutate alla luce non tanto del passato quanto della necessità di costruire un nuovo e diverso argine a quel dilagare di rivendicazioni e di calunnie che minaccia la civiltà occidentale. Una situazione nella quale una politica già di per se in crisi da decenni (e i cui fallimenti, ancora una volta inintenzionalmente, ne incrementano la domanda) rischia di trovarsi da sola a contrastare (producendo leggi e regolamenti che hanno l’effetto delle “grida” manzoniane) la diffusione di una tendenza che mira a sostituire il fondamento umanistico e tollerante della civiltà occidentale con una ragione astratta indifferente alle conseguenze delle sue tesi e dei suoi propositi. A distruggere l’ideale di una convivenza pacifica e civile.
Che si potesse arrivare a tanto, che il modello di “associazione civile e politico” occidentale dovesse trovarsi a fronteggiare contemporaneamente un attacco esterno e uno interno accomunati, più o meno inconsapevolmente, dal tentativo di minarne le basi culturali, è uno spiacevole dato di fatto. Al quale da decenni hanno contribuito non soltanto i tanti socialisti in buona o cattiva fede (cfr. Hayek 2011), ma anche tutti coloro che hanno creduto che i diritti di cui oggi gode il cittadino occidentale siano non soltanto innati e destinati ad ampliarsi illimitatamente a secondo del mutare delle sensibilità e delle aspettative individuali, ma (per quanto disconosciuti) anche universali e perenni. Trascurando il fatto che, in realtà, come insegna Michael Oakeshott, quei diritti si erano affermati nel corso dei secoli tra lotte, e soltanto in quella parte del mondo di cui oggi si tende a vedere e a mettere in luce prevalentemente gli aspetti negativi (comunque esistenti ed emendabili).
Quando nel secondo dopoguerra si affacciarono i cosiddetti “diritti umani” molti liberali – sbagliando – credettero che si trattasse dei vecchi “diritti naturali” che avevano mutato nome. Si diede poco peso al fatto che si trattava, in realtà, di aspettative soggettive che si pretendeva dovessero essere realizzate dalla politica e che, come tutte le aspettative, erano illimitate e frutto del desiderio e non della ragione e dell’esperienza. Si diede poco peso, inoltre, anche alle tesi di chi di tale loro natura si rese conto, producendo denunce e moniti che oltre a cadere nel vuoto attirarono su quei pensatori l’accusa di essere dei conservatori se non dei reazionari. Come pure, nonostante il successo editoriale, cadde nel vuoto l’analisi che il geniale straussiano Alan Bloom (2009) fece di quel che stava succedendo nella cultura accademica e popolare americana negli anni Settanta e delle conseguenze che avrebbe potuto avere. Tanto che si potrebbe intendere la cancel culture come l’esito di quel che Bloom aveva acutamente e brillantemente descritto. Ovvero dell’illusione che l’educazione democratica sarebbe riuscita a estirpare la stupidità, la malvagità e reso tutti cittadini saggi, prudenti, parsimoniosi e pure virtuosi. A realizzare non tanto una “nuova Gerusalemme”, ma una società opulenta nella quale un’etica astratta e tendenzialmente totalitaria avrebbe preso il posto della necessità di perpetuarsi riproducendo quanto viene consumato. Come se quei nuovi valori avrebbero potuto porre fine alla scarsità (di conoscenza prima che di beni e di risorse) e alla ineliminabile situazione di incertezza che caratterizza la condizione umana.
Si è così finito per dar poco peso alle idee che sono circolate, in questi ultimi decenni, nelle scuole di tutti gli ordini e grado e all’eventualità che esse potessero produrre non un’educazione, ma quella stupidità di massa nella quale prosperano i demagoghi. In questo modo si è fatto poco per contrastare la diffusione di un’empatia relativistica e velleitaria e per impedire che si affermasse la credenza secondo la quale non esiste differenza tra aspettative e diritti. Ovvero che le une e gli altri, indipendentemente dai costi e dalle conseguenze, siano legittime e che debbano essere protette e realizzate dalla politica – salvo poi pensare che sia una schifezza quando non ci riesce!
Le idee, come si sa, hanno conseguenze e, da tolleranti, abbiamo troppo a lungo pensato che un confronto critico avrebbe eliminato o ridotto l’influenza di quelle che ci apparivano strampalate. Purtroppo il modo in cui le idee e le teorie acquisiscono credito e si diffondono rimane per molti versi misterioso e il loro tasso di verità e di utilità per comprendere il mondo e l’uomo è soltanto una delle componenti del loro successo. Ronald Coase (2016) aveva ammonito sulla pericolosità di questa disattenzione. Nessuno pensa ovviamente ad una censura paragonabile a quella messa in pratica dal politically correct e dalla cancel culture, ma, come insegna Karl R. Popper, i “nemici della società aperta” esistono e vanno affrontati. Senza rifugiarci nella nostalgia di un mondo che con i suoi errori e con le sue nobiltà è ormai alle spalle (e che forse non è neanche mai esistito nella forma in cui noi tendiamo ottimisticamente ad immaginarcelo), ma servendoci proprio di quegli strumenti analitici e teorici che la cultura liberale (anche quella che alla religione era indifferente) ha prodotto, e che occorre riprendere, rielaborare e diffondere. Tenendo ben presente che la cultura umanistica, che è l’emblema di una visione disincantata dell’uomo (tanto delle sue miserie quanto della sua nobiltà), della sua storia e dell’esperienza che la compendia senza giustificarla a priori, è il vero ed efficace presidio della libertà e un argine alla diffusione delle follie della cancel culture.
Fonte: Raimondo Cubeddu | Lisander.com
Bibliografia
Bloom, A. (2009), La chiusura della mente americana. I misfatti dell’istruzione contemporanea, Lindau, Torino.
Coase, R. (2016), Sull’economia e gli economisti, IBL Libri, Torino.
Fabris, A. (2023), La fede scomparsa. Cristianesimo e problema del credere, Morcelliana, Brescia.
Hayek, F. A. von (2011), La via della schiavitù, Rubbettino, Soveria Mannelli.
Hayek, F. A. von (2023), La presunzione fatale. Gli errori del socialismo, IBL Libri, Torino.
McCloskey, D. (2023), Il liberalismo funziona, IBL Libri, Torino.