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Dai “tetti” alle periferie: finanziare le palliative e non l’eutanasia per garantire la libertà di scelta
— 22 Gennaio 2024— pubblicato da Redazione. —
Cento associazioni insieme per promuovere le cure palliative contro l’eutanasia in nove regioni italiane. Un modello da seguire
Giovedì scorso si è svolto un evento importante, anzi nove eventi in contemporanea, in altrettanti consigli regionali, per celebrare la sacralità e indisponibilità della vita. Di tutta la vita, dal concepimento alla morte naturale. In pratica, un centinaio di associazioni prevalentemente (ma non esclusivamente) espressione del mondo cattolico hanno promosso un care day contemporaneo per ricordare che la risposta al dolore non è l’eutanasia, ma l’incremento delle cure palliative in tutte le regioni italiane, finanziando in modo adeguato la legge 38 del 2010, che sancisce il diritto di accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore di ciascuno, esplicitando un modo di intendere il diritto alla salute che guarda alla globalità della persona. La legge 38 non è mai stata adeguatamente finanziata, di fatto vanificandola.
Centinaia di giuristi, filosofi, medici, palliativisti e alcuni vescovi e uomini politici si sono incontrati in Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Basilicata, Sicilia per affrontare il tema del fine vita dai diversi punti di vista, anzitutto antropologico e medico, ma anche giuridico e politico.
La Provvidenza ha voluto che questo incontro avvenisse poche ore dopo la bocciatura, da parte del Consiglio regionale del Veneto, del tentativo dell’Associazione Luca Coscioni di introdurre una legge eutanasica per via regionale. Quasi negli stessi minuti degli eventi sulle cure palliative, Marco Cappato ha presentato in Regione Lombardia le firme raccolte per portare in aula la stessa proposta di legge di iniziativa popolare bocciata in Veneto.
Il care day ha avuto un significativo concorso di partecipazione qualificata, che indica una cosa: in Italia esiste una componente importante del mondo scientifico e giuridico, oltre che un buon numero di associazioni e di uomini politici presenti in diversi partiti (soprattutto ma non esclusivamente nel centro-destra) fermamente convinti dell’indisponibilità della vita. E sono conseguentemente disposti a metterci la faccia, cioè a impegnarsi per convincere gli italiani che accompagnare il paziente nella fase terminale della sua vita è cosa ben più civile che risolvere il problema drammatico del fine vita aiutando il paziente a porre fine alla propria vita.
Queste persone, la cui preparazione è emersa dalla profondità delle loro relazioni, hanno soltanto bisogno di una struttura operativa che permetta loro di esprimersi in modo organizzato e non episodico. “Ditelo sui tetti”, un network di un centinaio di realtà associative, vuole servire a questo scopo, oggi per quanto riguarda il fine vita, domani per tanti altri ambiti dove sarà in pericolo il rispetto del bene comune della società italiana.
L’iniziativa ha toccato e riguarderà sempre di più le istituzioni e in generale la politica. In particolare, quello che è avvenuto in Veneto merita una riflessione.
La proposta di legge sul fine vita è stata fermata in consiglio regionale con una votazione che ha spaccato i partiti. La maggioranza di centro-destra ha visto la defezione di una parte dei consiglieri della Lega e anche della Lista che aveva sostenuto il presidente Luca Zaia, promotore dell’alleanza con l’Associazione Coscioni. Grazie a questa divisione interna al centro-destra, la proposta di legge sarebbe stata approvata, se non ci fosse stato il coraggioso rifiuto di “obbedire” al partito (il PD) da parte della consigliera Anna Maria Bigon, che si è astenuta rifiutandosi di uscire dall’aula regionale come richiesto dal suo partito. La sua scelta è stata decisiva per bocciare la proposta di legge.
Quanto avvenuto potrebbe ripetersi nelle diverse regioni, ma soprattutto a livello nazionale. Bisogna così preoccuparsi di spiegare agli italiani di che cosa si tratta, di quale sia la posta in gioco, del fatto che sono in conflitto due antropologie che hanno una visione dell’uomo e del mondo completamente diverse.
Il care day ha dimostrato che ci sono persone in grado di spiegare il problema e di farlo bene. Adesso si tratta di usare la loro generosità per organizzare convegni, seminari, conferenze, anche in ambiti privati, per spiegare con pazienza e competenza che la vita, anche nella fase terminale, è un dono che oggi siamo chiamati a proteggere e promuovere, non a eliminare.
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