Israele e Palestina, da una parte e dall’altra le storie di dolore e morte si rincorrono. Eppure c’è ancora chi riesce ad affermare una logica diversa, che parte da compassione e preghiera. «Per non smettere di credere che la pace sia possibile»
Ylahm Farah ha 84 anni e una vivacità non comune. Figlia della famosa poetessa palestinese Hanna Dahdah Farah, nata e cresciuta nella piccola ma antica comunità cristiana di Gaza, è una delle persone più amate in città. Soprannominata “la sorridente signora Umm al-Orange”, per via del colore rosso dei capelli, ha cresciuto generazioni di gazawi nell’amore per la musica. Non ha mai lasciato la Striscia: ha scelto di rimanere lì nel 2007, quando molti amici fuggirono per via dei continui scontri, e ha ripetuto questa scelta a ottobre quando i fondamentalisti di Hamas hanno dato il via a un’escalation che nessuno poteva immaginare. Solo che a Gaza, sotto il fuoco incrociato dei cecchini israeliani, Ylahm è morta.
«Era una donna speciale, conosciuta e amata da tutti perché ha speso la sua intera esistenza per insegnare a tutti la bellezza e la potenza della musica. La sua era una passione ereditata dai genitori: componeva, suonava, insegnava, cantava. A Gaza era quasi un’istituzione perché girava per strada con i suoi capelli rosso fuoco, il largo cappello e grossi occhiali. E una borsa decorata con ricami palestinesi. Sapeva suonare molti strumenti, tra cui il violino e l’organo, ma il suo preferito era la fisarmonica. La sua morte è stata un durissimo colpo». A parlare è un suo amico, uno dei più cari. «Il 12 novembre, durante la tregua, ha cercato di raggiungere il suo appartamento nel quartiere di al-Rimal per recuperare qualche abito invernale. Non ci è riuscita: è stata colpita alle gambe. Ha avuto la lucidità di avvisare col cellulare alcuni amici, la nipote. Me. Impossibile andare a prenderla. Per due giorni è rimasta a terra, ferita, mentre i cecchini facevano fuoco su chiunque si avvicinasse. Avrei voluto tenerla tra le braccia, caricarla sulle mie spalle per portala in ospedale. Non ho potuto fare niente. Sapevo che aveva cercato rifugio dai bombardamenti nella chiesa cattolica della Sacra Famiglia, che fin dall’inizio del conflitto ha aperto le porte a migliaia sfollati. Diceva sempre che Dio l’avrebbe protetta…».
Non cede alla rabbia, quest’uomo di quasi settant’anni che mi implora di non scrivere il suo nome per non avere guai. «Se penso alle sue ultime ore, provo strazio: come si può morire così? Qui abbiamo pregato tanto che la Madonna le fosse di conforto in quelle ore. Però non voglio pensare solo alla sua fine: l’intera esistenza di Ylham è stata gioia per chiunque la incontrasse. E allora sì, Dio l’ha protetta, l’ha benedetta, l’ha preferita».
Anche padre Gabriel Romanelli , parroco di Gaza, ha perso molti amici negli scontri. «Le persone che stanno morendo non sono numeri, per me sono dei volti cari, conosciuti. Chiediamo davvero che ci sia un cessate il fuoco permanente, che i feriti possano essere evacuati verso Rafah o sulle navi estere, come quella del Governo italiano, che sono pronte ad accoglierli per curarli. Ma quello che chiedo, personalmente, è di pregare. Chiediamo a Dio la forza di ricostruire, di ripartire. Chiediamo la fede, per non smettere di credere che la pace sia possibile».
La sofferenza per i morti, infatti, è uguale da entrambe le parti di questa guerra assurda. «Lo zio di una mia compagna è stato rapito e ucciso dai terroristi. Aveva dei figli, era una persona tranquilla, buona, con il suo lavoro e la sua famiglia. Noi sui social ci teniamo sempre informati sulle sorti degli altri ostaggi che sono ancora nelle mani di Hamas, ma forse sono già morti». Mentre parla, Sofi non alza lo sguardo dallo schermo del suo smartphone. Scrolla Instagram, mi fa vedere gli attori di “Fauda” – una serie tv israeliana molto apprezzata – che si sono arruolati per davvero. Nella fiction interpretavano gli agenti di un’unità antiterrorismo Mista’arvim (reparti speciali delle Forze di difesa israeliane) che operano come infiltrati in territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania. «Uno di loro è morto, un altro è gravemente ferito in ospedale. Sono andati là per difenderci».
Ha 16 anni, vive a Gerusalemme, e per tutti i ragazzi della sua età il 7 ottobre è stato qualcosa di sconvolgente. Non è difficile immaginarlo, visto che in una città come questa tutti alla fine si conoscono e il dolore diventa immediatamente collettivo. Di quello che accade nella Striscia non parla volentieri: «Non mi piace quello che vedo, credo che dovrebbero finire questi bombardamenti. Ma quello che penso io non conta niente, no? Non possiamo fare niente». Non la pensa così Rachel Goldberg Polin, mamma di Hersh, uno dei civili rapiti il 7 ottobre delle cui sorti non si sa ancora nulla e che da oltre cento giorni rilascia dichiarazioni dove invita a non cedere al desiderio di vendetta. Dopo essere stata ricevuta anche da papa Francesco, ha lanciato una campagna social per chiedere di mettere un nastro adesivo sul cuore dove segnare i giorni trascorsi dal sequestro dei civili israeliani. Ma il suo sguardo, in tutta questa vicenda, è diverso. Lo ha testimoniato in una breve intervista rilasciata a Tv2000, in un servizio curato da Alessandra Buzzetti. «Soffro terribilmente per i civili a Gaza: quando vedo un bambino estratto dalle macerie penso che soffrono come mio figlio in ostaggio. Non mi è difficile provare empatia per tutti, non è una competizione nel dolore. Ciò che mi fa andare avanti sono il sostegno che ci arriva da tutto il mondo, e la preghiera. A chi mi chiede come faccio a credere ancora in Dio, rispondo che il mio rapporto con Lui è ancora più forte e non saprei come non credere».
Un’altra donna dal piglio combattivo è Elham, energica vedova musulmana palestinese che da mesi riesce con fatica a far entrare aiuti a Gaza. Nata e cresciuta in Cisgiordania, un passato da assistente sociale presso l’Autorità Nazionale Palestinese, ha fondato l’associazione “Sulla via del bene”, che offre assistenza a donne divorziate, vedove e orfani palestinesi. Da ottobre, tutte le risorse sono confluite per aiutare la popolazione intrappolata nella Striscia.
«Conosco tantissime persone di Gaza City e anche dei dintorni. Le notizie che ci arrivano quotidianamente sono terribili. E sono tutte verificate, di prima mano. Bambini che vagano soli tra le macerie traumatizzati, palazzi distrutti, anziani intrappolati. Si stanno diffondendo malattie e pidocchi, la gente ha fame. Mancano le cose concrete: acqua, cibo, pannolini, medicine. Attraverso la Giordania e l’Egitto proviamo a far arrivare qualcosa. La scorsa settimana siamo riusciti a distribuire circa 8mila pasti pronti. Ma è nulla rispetto al bisogno che c’è». Elham è sostenuta da Associazione Pro Terra Sancta, da sempre a fianco dei cristiani della regione.
Anche lei. Lo dice apertamente, non fa distinzioni «perché i poveri sono tutti uguali agli occhi di Dio». Racconta che a spronarla sopra ogni altra cosa è il dolore dei piccoli. «Ho iniziato tanti anni fa questo lavoro, quando facevo l’assistente sociale ero sommersa da richieste di aiuto. Portavamo coperte, offrivamo assistenza legale, ma soprattutto ci facevamo carico delle esigenze dei minori: abiti, cibo, scuola…». Oggi tanti di quei ragazzi sono diventati uomini. «Alcuni di loro negli anni sono tornati per ringraziarmi. Non ho fatto tutto da sola, però so che quando morirò questa sarà la mia eredità». Il bene.
Fonte: Clonline.it