La scorsa settimana Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò ci ricordava che la dimensione religiosa è necessaria a umanizzarsi, dove c’è trascendenza si diventa uomini (sono le prime sepolture a dirci che qualcosa di mai visto è apparso sulla Terra). Sapere che esistano cose immortali non è difficile, si lamenta il personaggio pavesiano del dialogo Le Muse, ma «toccarle è difficile», cioè trovare l’infinito nel finito, l’assoluto nel relativo, il sempre nel qui e ora. La Musa risponde che il segreto è vivere per esse, avere cuore puro, cioè trasparente, fecondo, gioioso, innamorato, danzante. Il cuore dell’uomo desidera «toccare» ed «essere toccato» dall’eterno per non soccombere allo scorrere del tempo che conduce tutti alla morte.
Dal relativizzare il tempo dipende la fisica della felicità, non a caso diciamo felici i momenti in cui sembra che l’eterno entri nell’istante, quando la vita è talmente viva che dobbiamo ricorrere a un’espressione poetica: il tempo si è fermato. Accade quando ci innamoriamo, creiamo il nuovo, assistiamo al meraviglioso… Beatitudini che vorremmo perenni e paragoniamo al «toccare il cielo con un dito» o al «cielo in una stanza». E se la settimana scorsa Pavese suggeriva di salire simbolicamente in montagna per avvicinarsi a un cielo divenuto distante, mi chiedo oggi: c’è modo di far venire il cielo a noi, che sia lui a toccare noi quando siamo a valle? Per rispondere mi servirò di un testo che ritengo essere un’iniziazione alla vita felice, a prescindere dall’essere o meno credenti.
Alla fine del vangelo di Giovanni, c’è un personaggio, Tommaso, che, assente al momento in cui il risorto sorprende i suoi amici riuniti a compiangerlo, afferma che non crederà mai alla resurrezione di Cristo, a meno di non «toccarne» le ferite. In Tommaso ci siamo tutti noi, vogliamo fare esperienza del metodo per vincere la morte già in vita, solo questo darebbe senso a tutto, persino al morire. E così, narra Giovanni, una settimana dopo, Cristo si mostra a Tommaso, invitandolo a fare ciò che desiderava: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non mostrarti più incredulo ma fiducioso!» (Gv, 20).
Non è un rimprovero da catechismo per bambini ma un invito a toccare l’eterno e la gioia per cui il cuore è fatto, attraverso un paradosso: la porta di scambio tra l’infinito e il finito sono «le ferite». È proprio dove moriamo che il divino si fa toccare. La via di accesso al cielo non è la potenza, e per questo, in una cultura in cui è vero ciò che è potente ed è più vero ciò che è più potente (dall’archibugio alla bomba atomica), è diventato assai difficile toccare Dio, perché le ferite, i limiti, di ogni specie (esteriori e interiori), sono il contrario della potenza, sono divenuti privi di senso, e se gliene diamo uno è purtroppo quello di colpa.
In Giovanni invece c’è una prospettiva spiazzante per la vita quotidiana. Vuoi credere al fatto che le cose morte possano rinascere? Metti il dito nella tua piaga, non cercare la felicità nella potenza, nell’apparenza, nella forza, perché queste cose si procurano a fatica, non sono mai garantite del tutto e svaniscono, mentre i limiti li hai già, a portata di mano, gratis e sino alla fine. Il cielo è lì. Metti il dito nella piaga degli altri, non per farli soffrire, ma per curarli, non cercare la loro influenza, luce, forza, per poter esistere, ma la loro fatica: chiedi come stanno, che cosa li fa soffrire. Il cielo è lì. Le ferite di Cristo sono nelle mani, nei piedi, nel costato, ferite dello stare (chi sei?), del fare (che fai?) e delle relazioni (che o chi ami?). Ma sarà vero che il cielo è nella «ferita» e non nella «potenza», che l’infinito e il finito si toccano in una cicatrice?
Lo sperimento quando mi chino sulle fragilità dei miei studenti, non solo nei momenti di particolare fatica, ma in generale perché l’adolescenza è una «ferita» che brucia alla ricerca del senso delle cose, di un posto nel mondo, della propria identità. In ambito educativo i veri innovatori, da Socrate a Montessori, sono stati infatti quelli che si sono chinati sulle ferite, e lo stesso è accaduto in ambito medico, economico, politico… Lo sperimento anche quando tocco una mia ferita e invece di vergognarmi o disprezzarmi perché non sono «abbastanza», provo ad amare ciò che mi rende unico, per renderlo occasione creativa (un pensiero nuovo, una nuova pagina) o di relazione (chiedo aiuto o riconosco amico chi ha la stessa fragilità). Chi sono gli artisti se non persone che si sono tuffate nelle proprie e altrui ferite per capirle e magari curarle? Come Etty Hillesum.
La settimana scorsa, nella Giornata della Memoria, ho riletto alcune righe del Diario di questaragazza ebrea morta ad Auschwitz, righe in cui mostra ciò che cerco di dire: «E se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». Non incolpa Dio, attribuendogli il male o il silenzio che per molti è prova della sua inesistenza, indifferenza o crudeltà, ma parte proprio dall’impotenza di Dio per trovarlo, è lì dove lei è. Il Dio che tace, una parola l’ha detta: te. Infatti Hillesum, riferendosi al ruolo di educatrice per i figli dei deportati, prosegue: «Parole come Dio e Morte e Dolore ed Eternità si devono dimenticare di nuovo. Si deve diventare così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere. E io, sono io già abbastanza avanti da poter dire sinceramente: spero di andare al campo di lavoro, per poter essere di appoggio alle ragazze di sedici anni che ci vanno? Per rassicurare i genitori rimasti indietro: non siate inquieti, io vigilerò sui vostri figli».
Lei diventa la parola di Dio. Eterno e finito si toccano e le parole si rinnovano dove l’amore è portato nel mondo attraverso la nostra carne: è l’amore a relativizzare il tempo, a fermarlo, proprio dove «siamo». Il divino è nell’impotenza che interpella e risveglia la nostra libertà e creatività, possiamo essere noi il cielo per molte dita. Cristo infatti dice che se diamo (o no) un bicchiere d’acqua a chi ne ha bisogno lo diamo (o no) a lui stesso: dissetare Dio, negli altri, è essere uomini. E nel farlo diventiamo noi eterni, cioè capaci di stare nelle situazioni senza soccombere, anzi riempiendole di senso e di miracolo. Di fronte a uno studente in crisi che cosa invento? Di fronte a una mia crisi che cosa invento? Cioè come posso ricevere e tradurre in azione l’amore che può entrare nel mondo proprio da questa frattura nella superficie uniforme dell’indifferenza? Ogni ferita è una potenziale porta di scambio con il cielo, perché l’amore è l’unica forza capace di relativizzare la morte. Lo dice l’ultimo pensiero scritto da Hillesum: «Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse per il lato indifeso di me stessa? Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Erano così affamati… Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite». E se il tempo si è fermato, leggendo le sue parole, è perché lei «ha creduto» in una vita nuova, proprio lì dov’era, come Tommaso: «Perché non mi hai fatto poeta, mio Dio? Ma sì, mi hai fatto poeta, aspetterò pazientemente che maturino le parole della mia doverosa testimonianza: cioè che vivere nel Tuo mondo è una cosa bella e buona, malgrado tutto quel che ci facciamo reciprocamente noi uomini».
Fonte: Alessandro D’AVENIA | Corriere.it