I cruenti fatti di cronaca recente mostrano lo stretto legame tra religione e violenza. A tal proposito molti pensano, come canta Lennon in Imagine, che eliminare le religioni ci renderebbe più fratelli. Proprio la Bibbia affronta il tema sin dall’inizio senza mezzi termini: la violenza tra fratelli scatta proprio per un motivo religioso. Infatti al capitolo 4 di Genesiè narrata la vicenda di Caino e Abele, i primi due fratelli, figli di Adamo ed Eva. I due fanno un’offerta a Dio, ma quella di Caino non è gradita. Questi, invece di interrogarsi sul perché, decide di eliminare il fratello. Potremmo dare la colpa a Dio, che però non aveva chiesto alcun sacrificio, è stata una loro iniziativa, perché la religione è una iniziativa umana, un modo in cui l’uomo risponde al suo non bastarsi. Ma nel racconto ciò che interessa a Dio è altro: il cuore dell’uomo. Infatti mette in guardia Caino proprio sulle condizioni del suo cuore, che non sopporta ci sia un altro ad avere ciò che lui vuole in esclusiva. Non è la religione a generare violenza, ma la mania di possesso, anche su Dio. La parola religione (da re-ligare) rimanda al creare legami, mentre Caino li spezza: «Sono forse il custode di mio fratello?» risponde a Dio che gli chiede dove sia Abele. Ma perché proprio la religione nella storia fa spesso emergere questa violenza?
La violenza di Caino (che rappresenta anche gruppi o popoli) non nasce dalla religione ma dalle difese che il nostro io impaurito dalla morte alza per proteggersi e rassicurarsi: avere il controllo di Dio o di ciò che riteniamo essere dio (risorse, potere, ricchezza, salute…). L’io non vuole con-dividere, vuole essere «figlio unico», cioè «assoluto», letteralmente «sciolto da tutto», del tutto autosufficiente: non ci possono essere fratelli. Il problema è tutto in una «d», basta toglierla a Dio e l’io, privo di trascendenza, diventa violento, perché il suo desiderio di infinito viene proiettato su ciò che è finito, e l’altro diventa una minaccia allo «spazio vitale», la «d» è sostituita da una «m», perché dire «mio» significa rafforzare l’«io». L’ego non vuole con-dividere, gli pare di morire. Che c’entra questo con la religione? La religiosità, come mostra la storia dell’umanità, è un bisogno naturale dell’uomo che scopre di non bastare a se stesso. La psicologia della religione, che è parte di quella del profondo, spiega che l’atteggiamento religioso è una disposizione esistenziale che, sfuggendo al puro dominio razionale, attribuiamo infatti a luoghi metaforici: inconscio, cuore... A questo livello profondo siamo mossi dall’istinto di conservazione, come dalla fame, dalla sete, dalla paura del dolore. E usiamo la religione come narrazione per sopravvivere, o meglio l’ego, impaurito della morte, se ne serve così: in un aereo in balia di forti perturbazioni pregano anche gli atei. L’uomo, nel tentativo di gestire forze di cui non ha il controllo, inventa espedienti rassicuranti, attribuisce al divino ciò che lo minaccia e cerca di tenerlo a bada attraverso rappresentazioni con le quali instaura poi relazioni di tipo commerciale: idoli, sacrifici, preghiere, prove… in cambio di protezione.
Di fronte all’ignoto che è ignoranza della causa o dello scopo di qualcosa, l’uomo ha bisogno di rassicurarsi, e la religione attenua la paura dettata dall’ignoranza (paura oggi combattuta con una fiducia nella scienza e nella tecnica che ha infatti assunto caratteri religiosi: devozione, fedeli, nemici, profeti, promesse…). Per farsi amico di ciò che lo minaccia e gestirne la paura, l’uomo crea strutture materiali e psichiche fatte di narrazioni, regole, luoghi, riti e si assoggetta ad esse. Chi minaccia queste «proiezioni» e «protezioni» diventa: eretico, infedele, impuro…
L’ego pone confini ed esclusività proprio a chi gli sta più vicino («fratello» nel racconto di Caino e Abele indica i legami più stretti). Il sadismo è la risposta estrema al senso di minaccia portato al nostro ego, e diventa masochismo quando è rivolto a se stessi: devo distruggere ciò a cui tengo per tenermi buono il divino. «Perché proprio a me che ti ho sempre servito» è la frase che tradisce l’ego che crede sia amore la sua interessata sottomissione. La religiosità autentica, che non è prodotta dell’ego, non sottomette ma crea legami che uniscono. All’origine di ogni distruzione, sacrificio, violenza, c’è un ego impaurito che corrompe la natura religiosa dell’uomo. Anche i totalitarismi rivelano questo meccanismo, l’ideologia è una forma religiosa con apparati rituali, sacrificali e di censura. La soluzione non è allora eliminare la sete naturale di Dio, ma scoprire che ciò che unisce Caino e Abele è proprio quella sete: l’altro non è il nemico dell’ego che vuole l’esclusiva, ma un fratello con la stessa domanda di infinito e quindi da custodire.
L’amore nasce da qui: dal riconoscersi figli della stessa sete. La religiosità autentica non corazza l’ego, ma lo smonta per far emergere il Sè, cioè l’uomo compiuto, che è l’io in relazione, aperto alla vita. L’io isolato, amando, esce dalla sua prigione auto-inflitta e genera vita: ci vuole una «egografia» per far nascere l’io che sa amare, che rinuncia all’esclusiva sul mondo perché, solo amando, relativizza la paura della morte che lo porta a volere tutto per sé. Mi ha sempre colpito che in origine i cristiani, per l’eucarestia, non si riunivano in un luogo sacro ma nelle case, senza differenza di classe o cultura. Un gesto quotidiano e necessario, un pasto, rimescolava rapporti di forza e li trasformava in legami: non sorprende che i Romani, pronti pragmaticamente a tollerare tutte le religioni, perseguitarono (la loro violenza viene smascherata) proprio quella che minava un intero sistema di potere e non era disposta ad adorare l’imperatore.
La vita veramente religiosa si mostra come un modo nuovo di vivere le relazioni: non è un’esperienza «esclusiva» come si dice oggi per rendere appetibile qualcosa di costoso, ma è gratis, per tutti, così come sono. Ed è l’Amore. Dio non è onnipotente, onnisciente… ma, dice l’evangelista Giovanni, è Amore, cioè relazione e vita data gratis, che comincia dal riconoscere all’altro il valore assoluto che pretendiamo sia solo nostro, proprio perché in relazione a Dio siamo tutti paradossalmente «fratelli unigeniti», ognuno necessario (unico) e relativo (cioè in relazione, collegato). Dio non è dove c’è il potere religioso e purtroppo spesso la religione si riduce ad apparato di potere, ma dove c’è un modo nuovo di vivere le relazioni con gli altri e con il mondo: non sono dettate dal controllo e dalla paura ma dalla libertà e dalla ricerca comune di senso. La religiosità autentica fa nascere l’io compiuto, aggiunge una d- a -io, perché Dio è la possibilità di creare relazioni vere.
Dio c’è solo dove uno diventa custode dell’altro e il sangue di Abele smette di scorrere.
Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it